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Foibe, in un baule il calvario istriano. Ecco le carte di Maria Pasquinelli
Corriere della Sera di mercoledģ 10 febbraio 2021
Un volume (Edizioni Oltre) sulle vicende che portarono all’esodo degli italiani dalle loro terre. I documenti della maestra che uccise a Pola un generale britannico nel 1947


di GIAN ANTONIO STELLA
«Lentamente la fune scorreva sulla carrucola traendo dall’abisso il groviglio di membra agganciate; lunghi capelli, abiti a colori vivaci, rivelarono che nel carico erano i cadaveri di due donne. Mentre gli altri si avvicinavano per liberarli e deporli sul terreno, l’uomo diede indietro all’improvviso come fulminato e mormorò con voce strozzata dal pianto: “xe mia fia…” Poi cadde svenuto».
«Xe mia fia…». È mia figlia. Sono passati settantotto anni dal ritrovamento nella foiba di Orichi, vicino a Barbana, dei corpi della ragazza e di due sorelle uccise dai partigiani comunisti agli ordini di Ivan Kolic detto «el Gobo». Ma quelle parole raccolte dal maresciallo dei pompieri di Pola Arnaldo Harzarich, che spese ogni energia per recuperare le vittime italiane buttate nelle fenditure carsiche, danno ancora una fitta al cuore. Si chiamava Antonio Radecchi, quel papà che assistette al ritrovamento delle figlie. Albina aveva 21 anni, Caterina 19, Fosca 17. Vivevano a Lavarigo e, come ha scritto Dino Messina in Italiani due volte (Solferino), «andavano al lavoro in una fabbrica di Pola e sul tragitto, prima di rientrare a casa, si fermavano a parlare con alcuni militari di stanza al Campo di Fortuna di Altura». Tanto bastò per scatenare l’odio etnico e politico. Portate via di casa due giorni prima, usate come sguattere e violentate, erano state infine buttate nell’abisso con altri ventitré poveretti.
A raccogliere quelle parole del maresciallo dei pompieri fu nel 1945 una maestra fascista che dopo aver fatto l’infermiera volontaria in Libia, tentato di arruolarsi (documenti falsi, testa rasata) come soldato e ottenuto infine di insegnare alle elementari di Spalato, si incaponì nella raccolta di una montagna di documenti sugli eccidi contro gli italiani nell’autunno 1943, mesi in cui i nostri, dopo l’8 settembre, erano stati presi tra due fuochi: di qua le truppe naziste e di là i partigiani jugoslavi, nemici acerrimi nel contendersi il territorio, ma entrambi accecati dall’odio contro di noi. Documenti che sperava servissero a convincere non solo gli Alleati, ma prima ancora ciò che restava della destra fascista come Junio Valerio Borghese e insieme il Governo del Sud guidato da Ivanoe Bonomi e insieme ancora gli stessi partigiani non comunisti a partire dalle Brigate Osoppo, a superare le insuperabili divisioni perché le terre istrovenete non finissero sotto il tallone rosso di Josip Broz, Tito.
Si chiamava Maria Pasquinelli, quella maestra. E sarebbe passata alla storia due anni dopo, il 10 febbraio 1947, quando uccise per protesta con tre colpi di pistola, a Pola, il generale inglese Robert de Winton, il comandante alleato della zona. La prima ipotesi ripresa dal «Corriere» (una spiata volutamente falsa?) fu che la donna fosse stata «indotta all’assassinio di De Winton dagli jugoslavi per mettere in cattiva luce la comunità italiana di Pola nel momento in cui la città sta per passare sotto la giurisdizione di Belgrado o che abbia agito in base a qualche particolare causa di risentimento contro i militari britannici». In realtà la donna aveva in tasca un biglietto rivelato e riassunto due giorni dopo da Indro Montanelli: «Ho voluto uccidere per vendicare il tradimento compiuto contro il mio Paese e farlo proprio nel giorno in cui si firmava a Parigi la vergognosa pace imposta all’Italia». Confesserà al processo: «Non volevo sparare all’uomo e neppure alla divisa», ma «a quello che rappresentava». Aggiunse: «Non conoscevo né il nome, né la fisionomia, né i particolari della sua famiglia». Era un simbolo, fine. Condannata a morte, graziata nel 1964, esaltata dalla destra più dura, ma accusata da tutti gli altri di non aver mai chiesto perdono per quell’uomo ammazzato colpevole solo di decisioni altrui, confesserà alla cronista e scrittrice Rosanna Turcinovich: «Sento ogni notte il suo fiato sul mio collo».
Lasciò anzi alla giornalista, croata ma della minoranza italiana, autrice del libro La giustizia secondo Maria, una lettera che la delegava a ritirare alla curia di Trieste un suo baule strapieno di lettere, rapporti, brogliacci. Baule finalmente consegnato dopo anni alla destinataria che, con l’aiuto di un’altra giornalista, Rossana Poletti, ha esaminato pagina per pagina i documenti ricavandone un libro, Tutto ciò che vidi, Edizioni Oltre. Dov’è ricostruita la storia della traumatica amputazione dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia, la tragedia dell’esodo, l’infamia delle foibe. Nelle quali sarebbero poi finiti anche tanti slavi innocenti e vittime della barbarie titina (come a Kocevski Rog, dove solo nell’agosto 2020 sono stati recuperati i corpi di 250 assassinati), ma soprattutto, nel maledetto autunno ’43, tantissimi italiani.
Documenti preziosi. Come appunto sul ritrovamento di Albina, Caterina e Fosca, annotate ciascuna da Harzarich con lo stesso orribile dettaglio («squartata con un palo») e inserite nell’elenco di «martiri non iscritti Partito nazionale fascista». Assassinati, come moltissimi, «solo» perché italiani. Dice tutto la deposizione del fratello dello scrittore Scipio Slataper, Guido. Che, sopravvissuto al lager di Mauthausen, dichiarò al processo alla Pasquinelli («parlava esclusivamente da italiana, la sua preoccupazione costante era l’Italia, al di fuori ed al di sopra di ogni partito») che «nelle foibe erano stati gettati italiani senza distinzione, anzi erano stati gettati (anche) dei ferventi antifascisti». E così dicono tutto certi ritagli di giornale che, emersi dal baule, dimostrano quanto fosse imbarazzata e ipocrita una certa sinistra, che per anni sostenne di «non conoscere» la spaventosa realtà degli abissi carsici. Per ultimo Achille Occhetto sei anni fa: «Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza». Sarà... Sul «Piccolo» di Trieste di quel 1943, però, uscivano necrologi così: «La notte del 5 ottobre, nella foiba di Vines, veniva troncata la vita di Giacinto Bulian, imprenditore edile, d’anni 41. Abbandonati nel dolore danno il triste annuncio la moglie...». Possibile che il Pci, prima di addolorate ma tardive prese d’atto, fosse ignaro di tutto?
Gelano il sangue, i documenti di quel baule. Per il racconto dello strazio di Norma Cossetto, la giovane insegnante simbolo della mattanza, sequestrata, stuprata da un branco di sedici partigiani, pestata e gettata nella foiba di Villa Surani. Per la ripetitività dei ritrovamenti in quelle feritoie carsiche di cani neri sgozzati perché, diceva una leggenda, facessero compagnia ai morti impedendo loro di lamentarsi. Per certe immagini: «Una donna riconobbe fra le salme di un carico il proprio marito e il proprio figlio diciottenne. L’infelice pianse e urlò disperata; poi si fissò nell’idea che la scarpa che il figlio aveva ancora indosso e che sembrava stretta per il piede gonfio per la putredine, dovesse far male “al suo bambino”...». Impossibile dimenticare. Sbagliato rimuovere. Inaccettabile negare ancora quanto successe. Dopo tanti anni però, racconta Rosanna Turcinovich, la stessa pasionaria che si era spinta a uccidere per amore delle terre istrovenete, non conservava più un grammo di odio o di rancore. Solo dolore. Rimpianto. Nostalgia.


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Un volume (Edizioni Oltre) sulle vicende che portarono all’esodo degli italiani dalle loro terre. I documenti della maestra che uccise a Pola un generale britannico nel 1947


di GIAN ANTONIO STELLA
«Lentamente la fune scorreva sulla carrucola traendo dall’abisso il groviglio di membra agganciate; lunghi capelli, abiti a colori vivaci, rivelarono che nel carico erano i cadaveri di due donne. Mentre gli altri si avvicinavano per liberarli e deporli sul terreno, l’uomo diede indietro all’improvviso come fulminato e mormorò con voce strozzata dal pianto: “xe mia fia…” Poi cadde svenuto».
«Xe mia fia…». È mia figlia. Sono passati settantotto anni dal ritrovamento nella foiba di Orichi, vicino a Barbana, dei corpi della ragazza e di due sorelle uccise dai partigiani comunisti agli ordini di Ivan Kolic detto «el Gobo». Ma quelle parole raccolte dal maresciallo dei pompieri di Pola Arnaldo Harzarich, che spese ogni energia per recuperare le vittime italiane buttate nelle fenditure carsiche, danno ancora una fitta al cuore. Si chiamava Antonio Radecchi, quel papà che assistette al ritrovamento delle figlie. Albina aveva 21 anni, Caterina 19, Fosca 17. Vivevano a Lavarigo e, come ha scritto Dino Messina in Italiani due volte (Solferino), «andavano al lavoro in una fabbrica di Pola e sul tragitto, prima di rientrare a casa, si fermavano a parlare con alcuni militari di stanza al Campo di Fortuna di Altura». Tanto bastò per scatenare l’odio etnico e politico. Portate via di casa due giorni prima, usate come sguattere e violentate, erano state infine buttate nell’abisso con altri ventitré poveretti.
A raccogliere quelle parole del maresciallo dei pompieri fu nel 1945 una maestra fascista che dopo aver fatto l’infermiera volontaria in Libia, tentato di arruolarsi (documenti falsi, testa rasata) come soldato e ottenuto infine di insegnare alle elementari di Spalato, si incaponì nella raccolta di una montagna di documenti sugli eccidi contro gli italiani nell’autunno 1943, mesi in cui i nostri, dopo l’8 settembre, erano stati presi tra due fuochi: di qua le truppe naziste e di là i partigiani jugoslavi, nemici acerrimi nel contendersi il territorio, ma entrambi accecati dall’odio contro di noi. Documenti che sperava servissero a convincere non solo gli Alleati, ma prima ancora ciò che restava della destra fascista come Junio Valerio Borghese e insieme il Governo del Sud guidato da Ivanoe Bonomi e insieme ancora gli stessi partigiani non comunisti a partire dalle Brigate Osoppo, a superare le insuperabili divisioni perché le terre istrovenete non finissero sotto il tallone rosso di Josip Broz, Tito.
Si chiamava Maria Pasquinelli, quella maestra. E sarebbe passata alla storia due anni dopo, il 10 febbraio 1947, quando uccise per protesta con tre colpi di pistola, a Pola, il generale inglese Robert de Winton, il comandante alleato della zona. La prima ipotesi ripresa dal «Corriere» (una spiata volutamente falsa?) fu che la donna fosse stata «indotta all’assassinio di De Winton dagli jugoslavi per mettere in cattiva luce la comunità italiana di Pola nel momento in cui la città sta per passare sotto la giurisdizione di Belgrado o che abbia agito in base a qualche particolare causa di risentimento contro i militari britannici». In realtà la donna aveva in tasca un biglietto rivelato e riassunto due giorni dopo da Indro Montanelli: «Ho voluto uccidere per vendicare il tradimento compiuto contro il mio Paese e farlo proprio nel giorno in cui si firmava a Parigi la vergognosa pace imposta all’Italia». Confesserà al processo: «Non volevo sparare all’uomo e neppure alla divisa», ma «a quello che rappresentava». Aggiunse: «Non conoscevo né il nome, né la fisionomia, né i particolari della sua famiglia». Era un simbolo, fine. Condannata a morte, graziata nel 1964, esaltata dalla destra più dura, ma accusata da tutti gli altri di non aver mai chiesto perdono per quell’uomo ammazzato colpevole solo di decisioni altrui, confesserà alla cronista e scrittrice Rosanna Turcinovich: «Sento ogni notte il suo fiato sul mio collo».
Lasciò anzi alla giornalista, croata ma della minoranza italiana, autrice del libro La giustizia secondo Maria, una lettera che la delegava a ritirare alla curia di Trieste un suo baule strapieno di lettere, rapporti, brogliacci. Baule finalmente consegnato dopo anni alla destinataria che, con l’aiuto di un’altra giornalista, Rossana Poletti, ha esaminato pagina per pagina i documenti ricavandone un libro, Tutto ciò che vidi, Edizioni Oltre. Dov’è ricostruita la storia della traumatica amputazione dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia, la tragedia dell’esodo, l’infamia delle foibe. Nelle quali sarebbero poi finiti anche tanti slavi innocenti e vittime della barbarie titina (come a Kocevski Rog, dove solo nell’agosto 2020 sono stati recuperati i corpi di 250 assassinati), ma soprattutto, nel maledetto autunno ’43, tantissimi italiani.
Documenti preziosi. Come appunto sul ritrovamento di Albina, Caterina e Fosca, annotate ciascuna da Harzarich con lo stesso orribile dettaglio («squartata con un palo») e inserite nell’elenco di «martiri non iscritti Partito nazionale fascista». Assassinati, come moltissimi, «solo» perché italiani. Dice tutto la deposizione del fratello dello scrittore Scipio Slataper, Guido. Che, sopravvissuto al lager di Mauthausen, dichiarò al processo alla Pasquinelli («parlava esclusivamente da italiana, la sua preoccupazione costante era l’Italia, al di fuori ed al di sopra di ogni partito») che «nelle foibe erano stati gettati italiani senza distinzione, anzi erano stati gettati (anche) dei ferventi antifascisti». E così dicono tutto certi ritagli di giornale che, emersi dal baule, dimostrano quanto fosse imbarazzata e ipocrita una certa sinistra, che per anni sostenne di «non conoscere» la spaventosa realtà degli abissi carsici. Per ultimo Achille Occhetto sei anni fa: «Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza». Sarà... Sul «Piccolo» di Trieste di quel 1943, però, uscivano necrologi così: «La notte del 5 ottobre, nella foiba di Vines, veniva troncata la vita di Giacinto Bulian, imprenditore edile, d’anni 41. Abbandonati nel dolore danno il triste annuncio la moglie...». Possibile che il Pci, prima di addolorate ma tardive prese d’atto, fosse ignaro di tutto?
Gelano il sangue, i documenti di quel baule. Per il racconto dello strazio di Norma Cossetto, la giovane insegnante simbolo della mattanza, sequestrata, stuprata da un branco di sedici partigiani, pestata e gettata nella foiba di Villa Surani. Per la ripetitività dei ritrovamenti in quelle feritoie carsiche di cani neri sgozzati perché, diceva una leggenda, facessero compagnia ai morti impedendo loro di lamentarsi. Per certe immagini: «Una donna riconobbe fra le salme di un carico il proprio marito e il proprio figlio diciottenne. L’infelice pianse e urlò disperata; poi si fissò nell’idea che la scarpa che il figlio aveva ancora indosso e che sembrava stretta per il piede gonfio per la putredine, dovesse far male “al suo bambino”...». Impossibile dimenticare. Sbagliato rimuovere. Inaccettabile negare ancora quanto successe. Dopo tanti anni però, racconta Rosanna Turcinovich, la stessa pasionaria che si era spinta a uccidere per amore delle terre istrovenete, non conservava più un grammo di odio o di rancore. Solo dolore. Rimpianto. Nostalgia.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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