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Incontro con Rosanna Turcinovich, autrice di ‘Tutto ciň che vidi’
thedailycases.com di giovedě 11 marzo 2021
Scrittrice di spicco della cultura triestina, impegnata a raccontare il confine orientale tra tradizione, storia e memoria
Rosanna Turcinovich Giuricin, giornalista, scrittrice istriana, direttore del giornale degli esuli fiumani “la Voce di Fiume” e della rivista “Eccellenza/Excellency” destinata alle Ambasciate italiane nel Mondo.

di Antonio Martinelli Carraresi

Lei è una delle figure di spicco della cultura triestina e una voce importante della memoria istriana e sicuramente il cruccio di molti esuli, continuamente impegnati a ricordare la loro storia è riavere    l’identità negata, sicuramente molte cose sono cambiate dal momento in cui è stato riconosciuto ed istituito il Giorno del Ricordo,  ma ancora c’è tanta strada da fare. Quale il suo pensiero?

 “Non esiste il colpo di spugna che possa cancellare sessant’anni di silenzio sulla vicenda delle terre dell’Adriatico orientale ed è un segno che rimarrà per sempre. Si può certamente recuperare, come si sta facendo, e ci si può proiettare nel futuro, la cosa più difficile ma l’unica possibile. Il Giorno del Ricordo offre oggi questa opportunità, ovvero di costruire un sentire aperto e positivo per le nuove generazioni, attraverso l’analisi obiettiva della storia e la sua rappresentazione attraverso l’arte e la bellezza. Le tragedie della guerra peseranno sempre sulla memoria collettiva ma se vogliamo continuare ad esistere si dovrà scegliere la strada della comprensione e della catarsi. Sapere per crescere”.

Molti sostengono che esuli e rimasti si sono trovarti sotto governi che hanno voluto nascondere la storia, è d’accordo con questa disamina?

“Non posso che essere d’accordo. Oggi sappiamo che la consegna del silenzio è stata imposta per decenni e chi sapeva ha dovuto tacere. Molti dei protagonisti di questa storia negata sono andati avanti, per fortuna hanno lasciato racconti e testimonianze che oggi ci permettono di analizzare pagine di storia occultate o sminuite”.

Tutto ciò che vidi (Oltre edizioni), il suo ultimo libro scritto con Rossana Poletti, sta riscuotendo grande successo ed interesse da parte del pubblico affrontando un tema molto interessante ma anche molto scomodo, ce ne vuole parlare?

“E’ parte della storia di Maria Pasquinelli, una maestra di Bergamo, che il 10 febbraio del 1947 a Pola, per protestare contro i grandi che stavano consegnando le terre italiane dell’Adriatico orientale ai titini, sparò e uccise il loro massimo rappresentante in città, il generale inglese Robert De Winton. Prima che ciò succedesse, aveva vissuto la tragedia di Spalato nel 1943 mentre nel 1945 aveva girato l’Istria, indagando sulla tragedia delle foibe con una incredibile competenza giornalistica. Lo scopo era di stilare delle relazioni veritiere e documentate per convincere il Governo del Sud – e poi i partigiani della formazione Osoppo – di intervenire in Istria per farla rimanere terra italiana. Materiale custodito per decenni in una cassa dentro ad una banca di Trieste. Quando ho intervistato l’ergastolana Pasquinelli per il primo libro uscito nel 2007 ha voluto che questo suo materiale l’avessi io. Ci sono voluti anni per studiare il contenuto e renderlo pubblico in questo libro. E’ uno spaccato di storia di incredibile peso e valore che molte persone stanno leggendo”.

Lei ha da poco ricevuto il premio Tomizza del Club Lions Trieste Europa e uno dei passi della motivazione sottolinea proprio il suo impegno vissuto come missione, un riconoscimento conferito per l’impegno profuso a favore della pacifica convivenza dei popoli dell’area transfrontaliera. Veder riconosciuto il proprio impegno, risultato di sacrifici, passione, rinunce e sicuramente anche delusioni, ecco tra i tanti comportamenti ostativi che si incontrano nel perseguire missioni come la sua, quale l’ha amareggiata di più e quale, al contrario le ha infuso energia?

“C’è la mia vita in questa domanda…Quando si ha il coraggio di osare, le delusioni si moltiplicano perché è difficile e impopolare proporre progetti innovativi, indicare altre strade, dare consistenza ai sogni ma quale soddisfazione quando le idee si realizzano. O si vince un premio come il Tomizza di cui sono profondamente felice per la stima che ho sempre avuto per lo scrittore, onorata di entrare in una rosa di personaggi eccellenti. E’ un continuo equilibrismo tra sofferenza e soddisfazione. La grande felicità della mia vita è proprio nel lavoro che ho potuto svolgere sempre, nonostante difficoltà e chiusure, anche dopo aver cambiato Paese, il giornalismo è stata la mia forza. Ho tenuto duro perché ci ho sempre creduto. Mi ha amareggiata il giudizio degli incompetenti, mi infonde energia la solidarietà di tanti amici che continuano a darmi credito. E mi rende felice vedere che altri cercano di riproporre le mie idee anche se lo fanno senza di me. Significa che ho vinto”.

In molti suoi romanzi lei racconta il femminile, descrive la donna istriana, ma com’è la donna istriana?

“Quelle giovani e acculturate che ho avuto modo di conoscere e frequentare hanno la forza di spostare le montagne. A volte sono scomode perché non è facile seguire il loro genio. Le altre hanno la saggezza della terra, la fantasia del marinaio, sono materne e la loro compagnia è come un pane caldo, consola. Ne ho scritto perché ne ammiro il coraggio e la filosofia di vita, concreta con qualche vezzo concesso alla vanità e con una sana follia che ogni tanto deborda e coinvolge tutti. Sono l’anima della festa e questo mi piace. Sono custodi delle tradizioni, di usi e costumi, regine della cucina dal cuore generoso, la loro casa è un porto sicuro. Forse idealizzo ma parto dall’esperienza personale, dalla famiglia e da tutti gli incontri organizzati per scrivere i miei libri. Il loro abbraccio è istintivo e forte. Aveva ragione Guido Miglia, giornalista e scrittore, a definire l’Istria una quercia, come le sue donne”.



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Scrittrice di spicco della cultura triestina, impegnata a raccontare il confine orientale tra tradizione, storia e memoria
Rosanna Turcinovich Giuricin, giornalista, scrittrice istriana, direttore del giornale degli esuli fiumani “la Voce di Fiume” e della rivista “Eccellenza/Excellency” destinata alle Ambasciate italiane nel Mondo.

di Antonio Martinelli Carraresi

Lei è una delle figure di spicco della cultura triestina e una voce importante della memoria istriana e sicuramente il cruccio di molti esuli, continuamente impegnati a ricordare la loro storia è riavere    l’identità negata, sicuramente molte cose sono cambiate dal momento in cui è stato riconosciuto ed istituito il Giorno del Ricordo,  ma ancora c’è tanta strada da fare. Quale il suo pensiero?

 “Non esiste il colpo di spugna che possa cancellare sessant’anni di silenzio sulla vicenda delle terre dell’Adriatico orientale ed è un segno che rimarrà per sempre. Si può certamente recuperare, come si sta facendo, e ci si può proiettare nel futuro, la cosa più difficile ma l’unica possibile. Il Giorno del Ricordo offre oggi questa opportunità, ovvero di costruire un sentire aperto e positivo per le nuove generazioni, attraverso l’analisi obiettiva della storia e la sua rappresentazione attraverso l’arte e la bellezza. Le tragedie della guerra peseranno sempre sulla memoria collettiva ma se vogliamo continuare ad esistere si dovrà scegliere la strada della comprensione e della catarsi. Sapere per crescere”.

Molti sostengono che esuli e rimasti si sono trovarti sotto governi che hanno voluto nascondere la storia, è d’accordo con questa disamina?

“Non posso che essere d’accordo. Oggi sappiamo che la consegna del silenzio è stata imposta per decenni e chi sapeva ha dovuto tacere. Molti dei protagonisti di questa storia negata sono andati avanti, per fortuna hanno lasciato racconti e testimonianze che oggi ci permettono di analizzare pagine di storia occultate o sminuite”.

Tutto ciò che vidi (Oltre edizioni), il suo ultimo libro scritto con Rossana Poletti, sta riscuotendo grande successo ed interesse da parte del pubblico affrontando un tema molto interessante ma anche molto scomodo, ce ne vuole parlare?

“E’ parte della storia di Maria Pasquinelli, una maestra di Bergamo, che il 10 febbraio del 1947 a Pola, per protestare contro i grandi che stavano consegnando le terre italiane dell’Adriatico orientale ai titini, sparò e uccise il loro massimo rappresentante in città, il generale inglese Robert De Winton. Prima che ciò succedesse, aveva vissuto la tragedia di Spalato nel 1943 mentre nel 1945 aveva girato l’Istria, indagando sulla tragedia delle foibe con una incredibile competenza giornalistica. Lo scopo era di stilare delle relazioni veritiere e documentate per convincere il Governo del Sud – e poi i partigiani della formazione Osoppo – di intervenire in Istria per farla rimanere terra italiana. Materiale custodito per decenni in una cassa dentro ad una banca di Trieste. Quando ho intervistato l’ergastolana Pasquinelli per il primo libro uscito nel 2007 ha voluto che questo suo materiale l’avessi io. Ci sono voluti anni per studiare il contenuto e renderlo pubblico in questo libro. E’ uno spaccato di storia di incredibile peso e valore che molte persone stanno leggendo”.

Lei ha da poco ricevuto il premio Tomizza del Club Lions Trieste Europa e uno dei passi della motivazione sottolinea proprio il suo impegno vissuto come missione, un riconoscimento conferito per l’impegno profuso a favore della pacifica convivenza dei popoli dell’area transfrontaliera. Veder riconosciuto il proprio impegno, risultato di sacrifici, passione, rinunce e sicuramente anche delusioni, ecco tra i tanti comportamenti ostativi che si incontrano nel perseguire missioni come la sua, quale l’ha amareggiata di più e quale, al contrario le ha infuso energia?

“C’è la mia vita in questa domanda…Quando si ha il coraggio di osare, le delusioni si moltiplicano perché è difficile e impopolare proporre progetti innovativi, indicare altre strade, dare consistenza ai sogni ma quale soddisfazione quando le idee si realizzano. O si vince un premio come il Tomizza di cui sono profondamente felice per la stima che ho sempre avuto per lo scrittore, onorata di entrare in una rosa di personaggi eccellenti. E’ un continuo equilibrismo tra sofferenza e soddisfazione. La grande felicità della mia vita è proprio nel lavoro che ho potuto svolgere sempre, nonostante difficoltà e chiusure, anche dopo aver cambiato Paese, il giornalismo è stata la mia forza. Ho tenuto duro perché ci ho sempre creduto. Mi ha amareggiata il giudizio degli incompetenti, mi infonde energia la solidarietà di tanti amici che continuano a darmi credito. E mi rende felice vedere che altri cercano di riproporre le mie idee anche se lo fanno senza di me. Significa che ho vinto”.

In molti suoi romanzi lei racconta il femminile, descrive la donna istriana, ma com’è la donna istriana?

“Quelle giovani e acculturate che ho avuto modo di conoscere e frequentare hanno la forza di spostare le montagne. A volte sono scomode perché non è facile seguire il loro genio. Le altre hanno la saggezza della terra, la fantasia del marinaio, sono materne e la loro compagnia è come un pane caldo, consola. Ne ho scritto perché ne ammiro il coraggio e la filosofia di vita, concreta con qualche vezzo concesso alla vanità e con una sana follia che ogni tanto deborda e coinvolge tutti. Sono l’anima della festa e questo mi piace. Sono custodi delle tradizioni, di usi e costumi, regine della cucina dal cuore generoso, la loro casa è un porto sicuro. Forse idealizzo ma parto dall’esperienza personale, dalla famiglia e da tutti gli incontri organizzati per scrivere i miei libri. Il loro abbraccio è istintivo e forte. Aveva ragione Guido Miglia, giornalista e scrittore, a definire l’Istria una quercia, come le sue donne”.



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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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