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«Racconto del Kosovo e del suo tentativo di affrontare il passato per trovare pace»
Il Giornale di Brescia di lunedì 12 aprile 2021
Il lavoro d«ella bresciana Benedetta Arrighini sul Tribunale speciale per i crimini di guerra
La passione per i Balcani è iniziata prima di una gita a Sarajevo leggendo un libro della Mazzantini»

di Carlo Muzzi
Il Kosovononfa notizia. Sarà perché è ancora uno Stato non formalmente Stato o perché è troppo complicato spiegare ciò che accade dalle parti di Pristina, dovendolo contestualizzare all’interno della guerra civile balcanica a partire dalla dissoluzione della Federazione jugoslava.
È convinta del contrario Benedetta Arrighini, 26enne bresciana, fresca laureata in Giurisprudenza all’Università di Trento e che ha pubblicato il suo primo lavoro dal titolo «Kosovo tra guerra e crimini» per Oltre edizioni (276 pagine, 21 euro) che sarà in libreria dal 15 aprile. O meglio la Arrigini è convinta della necessità di raccontare del Kosovo, per il fatto in sé ma anche perché come si legge nel sottotitolo del libro: affrontare il passato (serve per) affrontare il presente. Un’idea questa che va oltre il caso kosovaro o balcanico ma si applica anche ad altri casi.

Come nasce l’interesse per il Kosovo?

Al tempo delle superiori mi sono appassionata alle questioni balcaniche grazie ad una gita a Sarajevo. Mi ricordo che prima di partire mi ero letta «Venuto al mondo» di Margaret Mazzantini. L’interesse è cresciuto negli anni dell’università ed è culminato con una tesi in Diritto penale internazionale sul Tribunale speciale per il Kosovo. Nel frattempo ho collaborato con l’Osservatorio BalcaniCaucaso e Transeuropa ed è nata la possibilità di pubblicare la mia tesi. Ovviamente alleggerita di alcune parti molto tecniche.

Ha scelto un caso ancora poco studiato e recentissimo. Perché?

È vero, si è parlato molto negli anni del Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia e pochissimo di quello per il Kosovo che ne è di fatto un’emanazione e che è stato voluto fortemente dall’Unione europea. Le ragioni del mio interesse sono legate al fatto che si tratta di un caso di «Giustizia di transizione», ovvero il modo in cui uno Stato si confronta con crimini che sono avvenuti al suo interno nel passato recente in modo da trasformare la società in democratica e pacifica. E ancor di più il fatto che in Kosovo questo processo sia ancora in corso.

Per lei quindi non si è trattato solo di uno studio giuridico?

È molto interessante capire come si sviluppa il tribunale che è previsto all’interno della Costituzione di Pristina: i kosovari hanno accettato di inserirlo su richiesta dell’Ue. Ma è chiaro che ho una convinzione più profonda, ovvero che i popoli devono fare i conti con il proprio passato se vogliono affrontare il futuro con istituzioni democratiche solide. In Italia abbiamo fatto davvero i conti con i crimini del nazifascismo? Non ne sono così convinta. Ma parlando di giustizia di transizione ci sono tanti altri casi: la Germania post caduta del muro, la Spagna postfranchista, senza dimenticare tutti i Paesi dell’America Latina o ancora il Sudafrica. In tutti questi casi la ricerca della verità sui crimini contro l’umanità aveva come obiettivo quello di individuare i colpevoli ma anche costruire una società più giusta.

Restando al Tribunale per il Kosovo, questo nasce partendo da un’accusa molto pesante.

Sì, che l’Uck abbia utilizzato il traffico di organi per finanziarsi e che le vittime non fossero solo prigionieri di guerra, ma anche kosovari considerati collaborazionisti dei serbi e rom. Il punto è che per ora non ci sono ancora state prove tangibili che questo sia accaduto e il Tribunale non ha mai ottenuto testimonianze su questo. Per altro i fatti contestati risalgono al 1999 e più ci si allontana da quella data più diventa difficile ricostruire la verità. Ad ogni modo in questi mesi l’operato del Tribunale ha portato, il 4 novembre scorso, alle dimissioni del presidente kosovaro Hashim Thaci accusato di crimini contro l’umanità.

Continuerà ad occuparsi della questione kosovara?

Subito dopo la laurea ho iniziato a fare la pratica in uno studio di avvocati. Ma non nascondo che mi piacerebbe fare un dottorato e successivamente occuparmi di diritti umani e Balcani magari collaborando con una ONG o supportando il loro lavoro.


leggi l'articolo integrale su Il Giornale di Brescia
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Il Giornale di Brescia - lunedì 12 aprile 2021
Il lavoro d«ella bresciana Benedetta Arrighini sul Tribunale speciale per i crimini di guerra
La passione per i Balcani è iniziata prima di una gita a Sarajevo leggendo un libro della Mazzantini»

di Carlo Muzzi
Il Kosovononfa notizia. Sarà perché è ancora uno Stato non formalmente Stato o perché è troppo complicato spiegare ciò che accade dalle parti di Pristina, dovendolo contestualizzare all’interno della guerra civile balcanica a partire dalla dissoluzione della Federazione jugoslava.
È convinta del contrario Benedetta Arrighini, 26enne bresciana, fresca laureata in Giurisprudenza all’Università di Trento e che ha pubblicato il suo primo lavoro dal titolo «Kosovo tra guerra e crimini» per Oltre edizioni (276 pagine, 21 euro) che sarà in libreria dal 15 aprile. O meglio la Arrigini è convinta della necessità di raccontare del Kosovo, per il fatto in sé ma anche perché come si legge nel sottotitolo del libro: affrontare il passato (serve per) affrontare il presente. Un’idea questa che va oltre il caso kosovaro o balcanico ma si applica anche ad altri casi.

Come nasce l’interesse per il Kosovo?

Al tempo delle superiori mi sono appassionata alle questioni balcaniche grazie ad una gita a Sarajevo. Mi ricordo che prima di partire mi ero letta «Venuto al mondo» di Margaret Mazzantini. L’interesse è cresciuto negli anni dell’università ed è culminato con una tesi in Diritto penale internazionale sul Tribunale speciale per il Kosovo. Nel frattempo ho collaborato con l’Osservatorio BalcaniCaucaso e Transeuropa ed è nata la possibilità di pubblicare la mia tesi. Ovviamente alleggerita di alcune parti molto tecniche.

Ha scelto un caso ancora poco studiato e recentissimo. Perché?

È vero, si è parlato molto negli anni del Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia e pochissimo di quello per il Kosovo che ne è di fatto un’emanazione e che è stato voluto fortemente dall’Unione europea. Le ragioni del mio interesse sono legate al fatto che si tratta di un caso di «Giustizia di transizione», ovvero il modo in cui uno Stato si confronta con crimini che sono avvenuti al suo interno nel passato recente in modo da trasformare la società in democratica e pacifica. E ancor di più il fatto che in Kosovo questo processo sia ancora in corso.

Per lei quindi non si è trattato solo di uno studio giuridico?

È molto interessante capire come si sviluppa il tribunale che è previsto all’interno della Costituzione di Pristina: i kosovari hanno accettato di inserirlo su richiesta dell’Ue. Ma è chiaro che ho una convinzione più profonda, ovvero che i popoli devono fare i conti con il proprio passato se vogliono affrontare il futuro con istituzioni democratiche solide. In Italia abbiamo fatto davvero i conti con i crimini del nazifascismo? Non ne sono così convinta. Ma parlando di giustizia di transizione ci sono tanti altri casi: la Germania post caduta del muro, la Spagna postfranchista, senza dimenticare tutti i Paesi dell’America Latina o ancora il Sudafrica. In tutti questi casi la ricerca della verità sui crimini contro l’umanità aveva come obiettivo quello di individuare i colpevoli ma anche costruire una società più giusta.

Restando al Tribunale per il Kosovo, questo nasce partendo da un’accusa molto pesante.

Sì, che l’Uck abbia utilizzato il traffico di organi per finanziarsi e che le vittime non fossero solo prigionieri di guerra, ma anche kosovari considerati collaborazionisti dei serbi e rom. Il punto è che per ora non ci sono ancora state prove tangibili che questo sia accaduto e il Tribunale non ha mai ottenuto testimonianze su questo. Per altro i fatti contestati risalgono al 1999 e più ci si allontana da quella data più diventa difficile ricostruire la verità. Ad ogni modo in questi mesi l’operato del Tribunale ha portato, il 4 novembre scorso, alle dimissioni del presidente kosovaro Hashim Thaci accusato di crimini contro l’umanità.

Continuerà ad occuparsi della questione kosovara?

Subito dopo la laurea ho iniziato a fare la pratica in uno studio di avvocati. Ma non nascondo che mi piacerebbe fare un dottorato e successivamente occuparmi di diritti umani e Balcani magari collaborando con una ONG o supportando il loro lavoro.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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