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La peste – Pino Casamassima
Gli amanti dei libri di martedģ 20 aprile 2021
Pino Casamassima, scrittore e giornalista di lungo corso, torna al romanzo. Quest’anno di pandemia č stato il pretesto per l’autore per aprire i cassetti della memoria. Quattro amici si ritrovano dopo molti anni e insieme a uno skipper decidono di fare...

di Nicola Vacca

Pino Casamassima, scrittore e giornalista di lungo corso, torna al romanzo.

Quest’anno di pandemia è stato il pretesto per l’autore per aprire i cassetti della memoria.

Quattro amici si ritrovano dopo molti anni e insieme a uno skipper decidono di fare un viaggio in barca proprio mente scoppia il caos del Coronavirus.

Mentre sulla terraferma succede di tutto loro si ritrovano sospesi con i ricordi al largo del Tirreno.

Parte da qui La peste, questo è il titolo del romanzo che diventa anche un omaggio sentito al capolavoro di Albert Camus.

Pierpaolo Cortes, il protagonista che di mestiere fa il giornalista proprio come l’autore, in barca si è portato da leggere La peste di Camus.

«Ma la memoria è spesso irriverente. Arriva quando vuole e nelle forme che vuole, e ti rovescia sul tavolo l’inatteso».

La memoria con i suoi frammenti di passato è il tema principale del libro, che possiamo leggere come un romanzo di formazione.

Tra autobiografia e invenzione, l’autore, approfittando di questo tempo muto e sospeso, racconta non solo il presente della pandemia ma nei suoi ricordi ricostruisce la storia politica e culturale del Paese attraverso le storie di vita vissuta della sua generazione.

La politica, la cultura, l’impegno militante, gli anni di piombo vissuti pericolosamente, le lotte della sinistra e le battaglie fatte in nome di un’ideale.

Sullo sfondo c’è sempre La peste di Camus, che è il libro guida di queste pagine strappate ai ricordi in cui Pino Casamassima con una scrittura intensa e lirica racconta con un ritmo incalzante e coinvolgente drammi, passioni e contraddizioni della sua generazione che ha creduto davvero di cambiare il mondo.

L’autore sembra proprio uno di quei quattro amici che in una barca a vela in mezzo al mare mentre sulla terraferma la peste è il male che sta uccidendo il mondo.

Alla ricerca del tempo perduto con la memoria, volontaria e involontaria, che presenta il conto il viaggio sembra proprio un naufragio nella malinconia di una nostalgia che si tenge di nero.

Da lettore mi sono appassionato a tutte le sfumature di questo viaggio nel tempo che Pino Casamassima ha costruito nel suo romanzo.

In queste pagine c’è una ricca letteratura del vissuto tutta da scoprire: vite che si intrecciano a altre vite, appartenenze, ideali, gesti concreti, ma soprattutto c’è il ritratto di una generazione fortunata (quella a cui appartiene Pino Casamassima) che è cresciuta con grandi riferimenti e con passioni straordinarie nel cuore, anche se adesso il tempo sembra sfuggito di mano dopo che sulla pelle sono rimaste come cicatrici le ustioni dell’illusione.

Nelle ultime pagine del suo romanzo Pino Casamassima scrive alcuni appunti per un saggio su La peste di Camus, il libro che più di qualsiasi altro riflette il pensiero del grande scrittore francese.

Interessanti le sue conclusioni:« In buona sostanza, l’uomo fatica a pensare davvero oltre sé stesso, ma se questo accade, se veramente a volte è possibile – come ciascuno ha esperienza – che due persone si incontrino in uno spazio magico, misterioso e per questo capace di generare l’inatteso, cioè  oltre i propri egoismi, le proprie ambizioni, i propri interessi, allora s, allora forse si può pensare di riuscire, con una sorte di comunione laica, a fronteggiare e averla finalmente vinta, sulla Peste».

Dietro questo libro prima di tutto c’è l’uomo. E Pino Casamassima è sempre stato un uomo in rivolta, lo testimonia la sua scrittura, la sua professione di giornalista sempre libero con tutti i suoi no che oggi troviamo tra le pagine di questo romanzo di passioni e ideali.



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Pino Casamassima, scrittore e giornalista di lungo corso, torna al romanzo. Quest’anno di pandemia č stato il pretesto per l’autore per aprire i cassetti della memoria. Quattro amici si ritrovano dopo molti anni e insieme a uno skipper decidono di fare...

di Nicola Vacca

Pino Casamassima, scrittore e giornalista di lungo corso, torna al romanzo.

Quest’anno di pandemia è stato il pretesto per l’autore per aprire i cassetti della memoria.

Quattro amici si ritrovano dopo molti anni e insieme a uno skipper decidono di fare un viaggio in barca proprio mente scoppia il caos del Coronavirus.

Mentre sulla terraferma succede di tutto loro si ritrovano sospesi con i ricordi al largo del Tirreno.

Parte da qui La peste, questo è il titolo del romanzo che diventa anche un omaggio sentito al capolavoro di Albert Camus.

Pierpaolo Cortes, il protagonista che di mestiere fa il giornalista proprio come l’autore, in barca si è portato da leggere La peste di Camus.

«Ma la memoria è spesso irriverente. Arriva quando vuole e nelle forme che vuole, e ti rovescia sul tavolo l’inatteso».

La memoria con i suoi frammenti di passato è il tema principale del libro, che possiamo leggere come un romanzo di formazione.

Tra autobiografia e invenzione, l’autore, approfittando di questo tempo muto e sospeso, racconta non solo il presente della pandemia ma nei suoi ricordi ricostruisce la storia politica e culturale del Paese attraverso le storie di vita vissuta della sua generazione.

La politica, la cultura, l’impegno militante, gli anni di piombo vissuti pericolosamente, le lotte della sinistra e le battaglie fatte in nome di un’ideale.

Sullo sfondo c’è sempre La peste di Camus, che è il libro guida di queste pagine strappate ai ricordi in cui Pino Casamassima con una scrittura intensa e lirica racconta con un ritmo incalzante e coinvolgente drammi, passioni e contraddizioni della sua generazione che ha creduto davvero di cambiare il mondo.

L’autore sembra proprio uno di quei quattro amici che in una barca a vela in mezzo al mare mentre sulla terraferma la peste è il male che sta uccidendo il mondo.

Alla ricerca del tempo perduto con la memoria, volontaria e involontaria, che presenta il conto il viaggio sembra proprio un naufragio nella malinconia di una nostalgia che si tenge di nero.

Da lettore mi sono appassionato a tutte le sfumature di questo viaggio nel tempo che Pino Casamassima ha costruito nel suo romanzo.

In queste pagine c’è una ricca letteratura del vissuto tutta da scoprire: vite che si intrecciano a altre vite, appartenenze, ideali, gesti concreti, ma soprattutto c’è il ritratto di una generazione fortunata (quella a cui appartiene Pino Casamassima) che è cresciuta con grandi riferimenti e con passioni straordinarie nel cuore, anche se adesso il tempo sembra sfuggito di mano dopo che sulla pelle sono rimaste come cicatrici le ustioni dell’illusione.

Nelle ultime pagine del suo romanzo Pino Casamassima scrive alcuni appunti per un saggio su La peste di Camus, il libro che più di qualsiasi altro riflette il pensiero del grande scrittore francese.

Interessanti le sue conclusioni:« In buona sostanza, l’uomo fatica a pensare davvero oltre sé stesso, ma se questo accade, se veramente a volte è possibile – come ciascuno ha esperienza – che due persone si incontrino in uno spazio magico, misterioso e per questo capace di generare l’inatteso, cioè  oltre i propri egoismi, le proprie ambizioni, i propri interessi, allora s, allora forse si può pensare di riuscire, con una sorte di comunione laica, a fronteggiare e averla finalmente vinta, sulla Peste».

Dietro questo libro prima di tutto c’è l’uomo. E Pino Casamassima è sempre stato un uomo in rivolta, lo testimonia la sua scrittura, la sua professione di giornalista sempre libero con tutti i suoi no che oggi troviamo tra le pagine di questo romanzo di passioni e ideali.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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