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Recensione a Giovanni Di Stefano, Cartagine oltre il mito - prima e dopo il 146 a.C.
OndaIblea di martedě 11 maggio 2021
Ci sono “diverse” Cartagine: quella della fondazione sidonia (la fenicia qrt ḥdšt), quella del mito ove campeggiano Elissa/Didone ed Enea, quella punica regina del mare, quella romana, quella imperiale e augustea, quella tardoantica, vandala e poi bizantina, quella cristiana di Perpetua e Felicita...

di Salvo Micciché

Ci sono “diverse” Cartagine: quella della fondazione sidonia (la fenicia qrt ḥdšt), quella del mito ove campeggiano Elissa/Didone ed Enea, quella punica regina del mare, quella romana, quella imperiale e augustea, quella tardoantica, vandala e poi bizantina, quella cristiana di Perpetua e Felicita, e Giovanni Di Stefano, in questo agile volume che vede la sapiente introduzione di Massimo Cultraro, le rappresenta tutte, con 13 brevi capitoli ornati da un importante apparato iconografico e da un’ottima bibliografia e seguiti da una appendice sui monumenti romani nella città del mito.

La nostalgia impone all’Autore questa scrittura, come nota a p. 15: «La nostalgia di un giorno trascorso a Cartagine \ l’avverti quando l’infuocato sole africano \ in un cielo fiammeggiante, tra silenzi fragorosi, \ tramonta dietro i marabut de “La Malga”… \ la nostalgia più forte \ è una fotografia guardata \ al di là del mare».

Di Stefano (Università della Calabria e Roma 2) – come del resto Cultraro (primo ricercatore CNR, Università di Palermo) – è uno dei massimi studiosi della città fenicio-punica, ove ha scavato e studiato in varie missioni, tra le ultime quelle recenti nel 2018/19/20, in cui, tra gli altri, hanno collaborato i giovani archeologi Stefania Fornaro e Lorenzo Zurla. La sua “nostalgia” è quindi palesemente tangibile, fondativa; sembra di vederlo fissare nella mente i capitoli del libro già sulla collina della Byrsa, per poi mettere tutto su carta (e computer) al ritorno dalla missione.

Su Cartagine, ci fa riflettere l’Autore, andrebbero riconsiderati miti e leggende, innanzitutto quello di una Didone che fonda la città “su quanta terra contiene una pelle di bue”, ma fatta a striscioline, e quindi ampia assai, all’incirca nel 818/814 a.C. e nella sua fondazione l’ecista incontra l’Enea fuggitivo che, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio – secondo il racconto virgiliano – dopo la distruzione di Troia (che però è avvenuta un bel po’ di tempo prima, forse intorno al 1184, xii sec. a.C.) e dopo lo sbarco nel Chersoneso Tracico e altre peripezie approda da lei, a Cartagine. Il poeta narra di Enea che seduce e poi abbandona colei che lo ospita, la regina Didone – per Dante «l’altra è colei che s’ancise amorosa» – a causa della missione che gli dei e il fato gli impongono, per cui lo iato di secoli non conta: fondare Roma è imperativo, e con essa magnificare la gens Giulio-Claudia. Ma i miti, si sa, vanno letti tra le righe, non dimostrati, e vanno poi solo interpretati. E sarà poi un mito o una leggenda, quella dei “sacrifici di bambini” a Baal nel Tofet? Un cimitero con ossa di bambini è reale, ma secondo accreditate interpretazioni si tratterebbe in realtà di ossa di infanti che mai avrebbero raggiunto l’età adatta per il “sacrificio”; forse la fantasia di scrittori ottocenteschi e dei moderni film sul tema ha fatto travisare la storia. E che dire di Tanit “faccia di Baal”? come collocare la divinità con i culti di Astarte e Demetra?

Del resto, nessuno che ami la storia e l’antichità (ma anche la mitologia) può sottrarsi al fascino di Cartagine, maestra e rivale di Roma, come avverte Massimo Cultraro nell’Introduzione: «Poche città del Mediterraneo antico possono vantare un ampio ed articolato palinsesto di eventi, che ha contribuito per secoli ad alimentare un’appassionata narrazione nella quale fatti reali ed immaginari convivono senza confini». Cultraro mette in luce il metodo dello storico e archeologo Di Stefano che in brevi quadretti narra, descrive, punto per punto, la città mediterranea per «fornire una serie di riflessioni e possibili chiavi di lettura su una metropoli multiculturale, all’interno di un rigoroso e aggiornato quadro scientifico».

Tra le chiavi di lettura proposte (cap. ii), Di Stefano insiste nell’evidenziare un elemento euboico-calcidese presente alla fondazione di Cartagine, elemento su cui non si è riflettuto abbastanza sinora e che le evidenze archeologiche inducono ad analizzare. E sempre in tema di elementi egei e greci in generale, al cap. iii si analizza il culto di Demetra e Kore, testimoniato, tra l’altro, dalla Favissa Delattre (sulla collina di Santa Monica) con una serie di figure fittili in cui la dea appare con i suoi simboli (fiaccola e porcellino), che induce a riconsiderare il passo di Diodoro Siculo (xiv 77.4-5) sulle modalità di trasferimento del culto demetriaco dalla Sicilia (e più propriamente Siracusa) al Nord Africa.

Ma l’Autore presenta al lettore chiavi di lettura ancora più idealizzanti e poetiche, come il tema dell’acqua, delle fontane – si pensi alla Fontana “a cascata” a La Malga, una specie di piccolo ninfeo – con i simboli di Nettuno (delfino e tridente), ampiamente documentate in altre realtà nordafricane (Leptis Magna, ad esempio). E ancora la vita quotidiana, con le case fornite di stibadia per ospitare convivi, e ancora fontane, come nella casa detta Utere Felix.

Di Stefano descrive poi ancora case, quelle dell’élite al tempo di Costantino, e in questo ambito canali, reti fognarie, bagni, toilette, ed anche qui ritorna il tema dell’acqua, della purificazione, ma anche simbolo di prestigio, come scrive l’Autore: «la presenza di fontane ornamentali (caratterizzate da una funzione decorativa) testimonia la particolare connotazione assunta dall’acqua quale ulteriore elemento di prestigio che il dominus poteva esibire ai suoi ospiti» (p. 114). Prestigio e sfarzo che appaiono per esempio nel mosaico del dominus Julius (ora al Museo del Bardo), in cui sono evidenti il tema della caccia e quello dell’agricoltura nelle varie stagioni, con il dominus assiso come in trono, con ancelle ai lati, e la bella e grande casa che appare come un castello turrito, fortificato.

Non vengono trascurati i particolari, e, per esempio, si analizza un bronzetto di equino rinvenuto a Cartagine, che molto probabilmente – come altri esempi sicelioti – aveva funzione apotropaica (difesa dell’equino stesso, a beneficio del suo padrone).

Interessante (cap. xii) l’analisi delle iscrizioni della Civitas Nybgeniorum. Si tratta in buona parte di milliaria ma ci sono anche interessanti frammenti sulla centuriazione dei Nybgenii che offrono spunti allo storico per la ricostruzione delle vicende delle genti di Gabes, la tribù dei Nybgenii (menzionata da Claudio Tolomeo, iv, 3,6) e informazioni sulla strada che da Capsa portava alla Civitas Nybgeniorum, costruita intorno al 105 d.C. da Minicio Natale per l’imperatore Traiano.

Il cap. xiii è intitolato “L’impero sul mare di Cartagine” e prende come spunto di discussione anche lo studio di due carichi commerciali naufragati in Sicilia (uno agli inizi del iii secolo, e l’altro agli inizi del iv): il primo con materiale lapideo (due colonne, in particolare) nella baia di Camarina, l’altro con anfore piene di garum a Randello, non distante dal primo. Camarina, infatti, è l’altro “luogo del cuore” di Giovanni Di Stefano, che ha passato i recenti decenni a scavare e studiare questo splendido sito.

L’Appendice è dedicata ai monumenti, a partire dalla collina della Byrsa: il Foro, forse secondo solo a Roma, l’Odeon, l’anfiteatro in cui, tra l’altro, avvenne il martirio di Perpetua e Felicita, condannate ad bestias (il 7 marzo del 203, anniversario di Cesare di Geta, cfr. la Passione di Perpetua e Felicita), il circo, le terme di Antonino. Poi vengono analizzati anche i porti e l’isola dell’Ammiraglio.

Un testo completo, che invita all’approfondimento che non solo l’archeologo attento ma anche il lettore curioso (e affascinato di Cartagine) non può trascurare, una lettura piacevole e documentata che ci fa piacere segnalare.

 



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Ci sono “diverse” Cartagine: quella della fondazione sidonia (la fenicia qrt ḥdšt), quella del mito ove campeggiano Elissa/Didone ed Enea, quella punica regina del mare, quella romana, quella imperiale e augustea, quella tardoantica, vandala e poi bizantina, quella cristiana di Perpetua e Felicita...

di Salvo Micciché

Ci sono “diverse” Cartagine: quella della fondazione sidonia (la fenicia qrt ḥdšt), quella del mito ove campeggiano Elissa/Didone ed Enea, quella punica regina del mare, quella romana, quella imperiale e augustea, quella tardoantica, vandala e poi bizantina, quella cristiana di Perpetua e Felicita, e Giovanni Di Stefano, in questo agile volume che vede la sapiente introduzione di Massimo Cultraro, le rappresenta tutte, con 13 brevi capitoli ornati da un importante apparato iconografico e da un’ottima bibliografia e seguiti da una appendice sui monumenti romani nella città del mito.

La nostalgia impone all’Autore questa scrittura, come nota a p. 15: «La nostalgia di un giorno trascorso a Cartagine \ l’avverti quando l’infuocato sole africano \ in un cielo fiammeggiante, tra silenzi fragorosi, \ tramonta dietro i marabut de “La Malga”… \ la nostalgia più forte \ è una fotografia guardata \ al di là del mare».

Di Stefano (Università della Calabria e Roma 2) – come del resto Cultraro (primo ricercatore CNR, Università di Palermo) – è uno dei massimi studiosi della città fenicio-punica, ove ha scavato e studiato in varie missioni, tra le ultime quelle recenti nel 2018/19/20, in cui, tra gli altri, hanno collaborato i giovani archeologi Stefania Fornaro e Lorenzo Zurla. La sua “nostalgia” è quindi palesemente tangibile, fondativa; sembra di vederlo fissare nella mente i capitoli del libro già sulla collina della Byrsa, per poi mettere tutto su carta (e computer) al ritorno dalla missione.

Su Cartagine, ci fa riflettere l’Autore, andrebbero riconsiderati miti e leggende, innanzitutto quello di una Didone che fonda la città “su quanta terra contiene una pelle di bue”, ma fatta a striscioline, e quindi ampia assai, all’incirca nel 818/814 a.C. e nella sua fondazione l’ecista incontra l’Enea fuggitivo che, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio – secondo il racconto virgiliano – dopo la distruzione di Troia (che però è avvenuta un bel po’ di tempo prima, forse intorno al 1184, xii sec. a.C.) e dopo lo sbarco nel Chersoneso Tracico e altre peripezie approda da lei, a Cartagine. Il poeta narra di Enea che seduce e poi abbandona colei che lo ospita, la regina Didone – per Dante «l’altra è colei che s’ancise amorosa» – a causa della missione che gli dei e il fato gli impongono, per cui lo iato di secoli non conta: fondare Roma è imperativo, e con essa magnificare la gens Giulio-Claudia. Ma i miti, si sa, vanno letti tra le righe, non dimostrati, e vanno poi solo interpretati. E sarà poi un mito o una leggenda, quella dei “sacrifici di bambini” a Baal nel Tofet? Un cimitero con ossa di bambini è reale, ma secondo accreditate interpretazioni si tratterebbe in realtà di ossa di infanti che mai avrebbero raggiunto l’età adatta per il “sacrificio”; forse la fantasia di scrittori ottocenteschi e dei moderni film sul tema ha fatto travisare la storia. E che dire di Tanit “faccia di Baal”? come collocare la divinità con i culti di Astarte e Demetra?

Del resto, nessuno che ami la storia e l’antichità (ma anche la mitologia) può sottrarsi al fascino di Cartagine, maestra e rivale di Roma, come avverte Massimo Cultraro nell’Introduzione: «Poche città del Mediterraneo antico possono vantare un ampio ed articolato palinsesto di eventi, che ha contribuito per secoli ad alimentare un’appassionata narrazione nella quale fatti reali ed immaginari convivono senza confini». Cultraro mette in luce il metodo dello storico e archeologo Di Stefano che in brevi quadretti narra, descrive, punto per punto, la città mediterranea per «fornire una serie di riflessioni e possibili chiavi di lettura su una metropoli multiculturale, all’interno di un rigoroso e aggiornato quadro scientifico».

Tra le chiavi di lettura proposte (cap. ii), Di Stefano insiste nell’evidenziare un elemento euboico-calcidese presente alla fondazione di Cartagine, elemento su cui non si è riflettuto abbastanza sinora e che le evidenze archeologiche inducono ad analizzare. E sempre in tema di elementi egei e greci in generale, al cap. iii si analizza il culto di Demetra e Kore, testimoniato, tra l’altro, dalla Favissa Delattre (sulla collina di Santa Monica) con una serie di figure fittili in cui la dea appare con i suoi simboli (fiaccola e porcellino), che induce a riconsiderare il passo di Diodoro Siculo (xiv 77.4-5) sulle modalità di trasferimento del culto demetriaco dalla Sicilia (e più propriamente Siracusa) al Nord Africa.

Ma l’Autore presenta al lettore chiavi di lettura ancora più idealizzanti e poetiche, come il tema dell’acqua, delle fontane – si pensi alla Fontana “a cascata” a La Malga, una specie di piccolo ninfeo – con i simboli di Nettuno (delfino e tridente), ampiamente documentate in altre realtà nordafricane (Leptis Magna, ad esempio). E ancora la vita quotidiana, con le case fornite di stibadia per ospitare convivi, e ancora fontane, come nella casa detta Utere Felix.

Di Stefano descrive poi ancora case, quelle dell’élite al tempo di Costantino, e in questo ambito canali, reti fognarie, bagni, toilette, ed anche qui ritorna il tema dell’acqua, della purificazione, ma anche simbolo di prestigio, come scrive l’Autore: «la presenza di fontane ornamentali (caratterizzate da una funzione decorativa) testimonia la particolare connotazione assunta dall’acqua quale ulteriore elemento di prestigio che il dominus poteva esibire ai suoi ospiti» (p. 114). Prestigio e sfarzo che appaiono per esempio nel mosaico del dominus Julius (ora al Museo del Bardo), in cui sono evidenti il tema della caccia e quello dell’agricoltura nelle varie stagioni, con il dominus assiso come in trono, con ancelle ai lati, e la bella e grande casa che appare come un castello turrito, fortificato.

Non vengono trascurati i particolari, e, per esempio, si analizza un bronzetto di equino rinvenuto a Cartagine, che molto probabilmente – come altri esempi sicelioti – aveva funzione apotropaica (difesa dell’equino stesso, a beneficio del suo padrone).

Interessante (cap. xii) l’analisi delle iscrizioni della Civitas Nybgeniorum. Si tratta in buona parte di milliaria ma ci sono anche interessanti frammenti sulla centuriazione dei Nybgenii che offrono spunti allo storico per la ricostruzione delle vicende delle genti di Gabes, la tribù dei Nybgenii (menzionata da Claudio Tolomeo, iv, 3,6) e informazioni sulla strada che da Capsa portava alla Civitas Nybgeniorum, costruita intorno al 105 d.C. da Minicio Natale per l’imperatore Traiano.

Il cap. xiii è intitolato “L’impero sul mare di Cartagine” e prende come spunto di discussione anche lo studio di due carichi commerciali naufragati in Sicilia (uno agli inizi del iii secolo, e l’altro agli inizi del iv): il primo con materiale lapideo (due colonne, in particolare) nella baia di Camarina, l’altro con anfore piene di garum a Randello, non distante dal primo. Camarina, infatti, è l’altro “luogo del cuore” di Giovanni Di Stefano, che ha passato i recenti decenni a scavare e studiare questo splendido sito.

L’Appendice è dedicata ai monumenti, a partire dalla collina della Byrsa: il Foro, forse secondo solo a Roma, l’Odeon, l’anfiteatro in cui, tra l’altro, avvenne il martirio di Perpetua e Felicita, condannate ad bestias (il 7 marzo del 203, anniversario di Cesare di Geta, cfr. la Passione di Perpetua e Felicita), il circo, le terme di Antonino. Poi vengono analizzati anche i porti e l’isola dell’Ammiraglio.

Un testo completo, che invita all’approfondimento che non solo l’archeologo attento ma anche il lettore curioso (e affascinato di Cartagine) non può trascurare, una lettura piacevole e documentata che ci fa piacere segnalare.

 



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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