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“L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974). La parabola della «propaganda armata»” di Curzia Ferrari
Letture.org di martedě 14 settembre 2021
La parola “ossessione” č quella che attira in primis l’attenzione su questo libro, sull’avventurismo del fenomeno Brigate Rosse nel periodo cosiddetto della propaganda armata. Il terreno era preparato da tempo perché le notizie sulla direttiva e sulle imprese dei dissidenti, per altro...

Dott.ssa Curzia Ferrari, Lei è autrice del libro L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974). La parabola della “propaganda armata” edito da Gammarò: qual è il significato dell’ossessione cui Lei accenna?

La parola “ossessione” è quella che attira in primis l’attenzione su questo libro, sull’avventurismo del fenomeno Brigate Rosse nel periodo cosiddetto della propaganda armata. Il terreno era preparato da tempo perché le notizie sulla direttiva e sulle imprese dei dissidenti, per altro sempre frenate dalla comunicazione del Partito Comunista, arrivavano comunque all’opinione pubblica. Dalle università, a cominciare da quella di Trento, l’enfatizzazione della protesta – da sottolineare, al principio emancipatrice e non repressiva – si infiltrava nel quotidiano, sicché si cominciò a pensare alla possibilità di una società alternativa. I telegiornali, spesso in apertura, facevano i nomi di Renato Curcio, di Mario Rostagno (poi vittima di se stesso) – e io, che potevo ricevere notizie quotidiane da un personaggio dell’Arma, poi appartenente al selezionato gruppo antiterrorismo di Torino – cominciai a raccogliere le tessere del mosaico che compongono questo libro: insomma le BR divennero la mia ossessione. Ancorché votata all’antropologia biografica, coltivo per altro verso l’attitudine a vivere nel mio tempo, “adattandomi” al tempo, cosa che rende la cronaca interessante quanto la letteratura e la poesia.

In quale contesto politico e sociale nascono le Brigate Rosse?
Le Brigate Rosse vengono da lontano rispetto alle presunte date della loro formazione effettiva e del generico collegamento fra studenti e masse operaie. Dal 1961 in poi è un fiorire di riviste e quaderni rossi che, più o meno onestamente, denunciavano lo scricchiolare di una società talmente adagiata nel benessere del dopoguerra da passare alla storia come la società d’oro del secolo XX°. Sono i favolosi Anni Sessanta del boom economico, della beat generation, della musica pop, dell’Apollo 11 che tocca il suolo lunare, dell’incontro fra Rada Krusciov e Papa Roncalli e, non è poca cosa, del primo governo italiano di centro-sinistra. Ma è anche il tempo del colossale sciopero dei minatori francesi (1964) che scuote l’Europa, e nel 1968 il faticoso e non riuscito tentativo di ricucitura di Pompidou fra la coalizione di studenti e l’imprenditoria, negoziato dai sindacati. Io sono una scrittrice – non una storica. E forse per questo mi è sempre stato chiaro il polverone causato dall’incrocio fra il positivo e il negativo sociale (almeno come ognuno li intende), e che i giovani rappresentano un punto di incisione nella storia. Rimproverano ai maestri l’agiatezza sociale, il credo spirituale, il modo di condurre i rapporti fra le categorie ( dai cancelli delle miniere francesi uscì il grido, poi dovunque dilagatosi: “Cours camarade, le vieux mond est dernière toi.”), anelano a nuovi statuti. Giovani e lavoratori – con punti di riferimento talora diversi, nell’assurdo di voler applicare a tutti i precetti dogmatici di Lenin, di Mao o di Che Guevara con la sua guerriglia contro l’imperialismo. La cosiddetta repressione padronale in fabbrica è altra cosa (se ne ha una testimonianza nel presente volume), ed è la figlia del cumulo di volantini, manifesti, istigazioni, piccole rappresaglie relative all’odio sociale e alla confusione cui alludevo prima: almeno fino al momento in cui Renato Curcio e Margherita Cagol, resuscitando le ceneri di un bollettino del Centro Informazioni di Verona, diedero vita alla rivista “Lavoro Politico”. Si tratta di un periodico mensile a carattere monografico, giocato sul dialogo fra cattolici e comunisti, nonché – ecco ciò che ritengo come il il punto nodale – sul tema della scuola e del linguaggio. La repressione e la rivolta, al di là di un giudizio politico di parte, generano sempre un modo nuovo di esprimersi: direi anzi che la rottura del linguaggio è l’anticipazione dell’urto sociale che sta per compiersi. Lo dimostra, nel nostro caso, la nascita del Gruppo 63 che giusto in quell’anno, opponendosi con il convegno di Palermo a una cifra stilistica considerata logora, inquietò i massimi sistemi della letteratura. Sostenuto dall’editore Feltrinelli, che in questa cultura del dissenso linguistico vide profilarsi una neoavanguardia proiettata in area ideologica, il Gruppo 63 può essere considerato una delle sorgenti della contestazione politica. L’avventura del movimento affondò nel travaglio e nell’equivoco. L’editore Feltrinelli, frustrato dall’insuccesso, ci rimise un bel po’ di soldi; ma il suo retorico orgoglio non abbandonò la sfida che si allungava fuori dai confini espressivi, intenti alla scoperta di un nuovo modo di comunicare.

Nel libro Lei evidenzia come le BR fossero finanziate da Giangiacomo Feltrinelli; d’altra parte, argomenta, «chi ha finanziato le BR nei loro primi diciotto mesi di vita se la serie delle grandi rapine commesse da Curcio e compagni, sebbene non rivendicate, comincia il 20 maggio del 1972 con l’assalto a un istituto di credito presso Reggio Emilia, quarantaquattro giorni dopo» la morte dell’editore sotto il traliccio di Segrate: quale collegamento esisteva tra Feltrinelli e l’attività delle BR?
Sì, c’è un profondo dissidio fra il concetto destabilizzante dello stato di Feltrinelli e lo sviluppo non solo culturale della lotta armata. Senza dubbio egli provvide, non sapremo mai in quanta parte, ai bisogni dei brigatisti. A loro sembrava un po’ tirchio se lo sollecitavano, come abbiamo letto, a dare di più. Feltrinelli, del resto, aveva reso esangue la sua casa editrice con l’avventura del Gruppo 63 – autori invenduti, in gran parte immaginati come arma per colpire il nemico. Dopo la sua morte, nella confusione suscitata dall’evento, i brigatisti temettero forse di perdere la faccia, insieme al foraggiamento: non a caso c’è, poco dopo, l’assalto all’istituto di credito di Reggio Emilia. Ma c’è anche il loro secondo documento teorico che evidenzia le linee della guerra di classe. L’infantilismo è dichiarato come deleterio, sebbene in certe azioni il timbro tupamaros non riesca a scomparire. Il Sessantotto prima del Sessantotto e il Sessantotto di Feltrinelli verranno decisamente e tristemente superati con il lungo sequestro di Mario Sossi.

Quali misteri avvolgono la morte di Giangiacomo Feltrinelli?
Ci sono misteri destinati a restare tali perché di ordine personale, psicologico. Il ricco e blasonato Feltrinelli che si sporca le mani e il viso di fuliggine, resta giorni e giorni senza lavarsi e veste tute strappate per somigliare agli operai, suscita non pochi sospetti sulla stabilità della sua mente. Lui – che in gioventù esibiva grande adesione al fascismo, tanto da tappezzare la propria casa con manifesti inneggianti al Duce nonchè alla vittoria delle forze dell’Asse – e di colpo cambiò direzione, fulminato sulla via di Damasco da una conversazione con Trombadori. Lasciato agli analisti il problema, in mano ci resta ben poco. La sua autobiografia è colma di nomi, sappiamo dei suoi viaggi e dei suoi incontri con Guevara, Castro, Régis Débray, un giornalista francese che aveva preso parte alle azioni di guerriglia del Che, dell’estrema follia di trasformare la Sardegna in una Cuba nostrana – ma il bandito Mesina, interpellato per la faccenda, non gli dà retta e si rifiuta di collaborare al progetto… Lui ci resta male…E allora? All’impresa di Segrate, Feltrinelli fu spinto probabilmente dal desiderio di dimostrare che era qualcuno: gli andò male e ci lasciò la pelle.

Sempre nel libro, Lei scrive: «nelle azioni delinquenziali delle BR c’è una certa razionalità culturale che ha come termine di riferimento il pensiero, cioè l’ideologia, Feltrinelli ha incarnato nella storia del terrorismo il regresso irrazionale, l’infantilismo e una forma di violenza che finisce per rafforzare i cardini dello sfruttamento capitalistico»: quali conseguenze produsse la morte di Feltrinelli?
Nessuna conseguenza rilevante, io credo, tranne una diminuzione del foraggiamento. Fu anche, sotto il profilo politico, una liberazione. I messaggi delle BR, già da un anno dopo la formazione dei primi nuclei,. non possono essere letti dentro le loro singole azioni. Il concetto fochista è superato dalla ratio –  altrimenti la lotta armata si rovescia in spunti singoli, dove si pensa che basti mordere: la riflessione teorico-politica delle BR è contraria a chi agisce autonomamente e non per conto dell’organizzazione.

Quali azioni di lotta armata adottarono le BR e quale evoluzione ne caratterizzò la strategia?
La lotta armata delle BR inizia con l’inondazione del Nord-Italia di volantini, manifesti, materiale propagandistico vario, e slogan trasmessi fuori dalle fabbriche. Nascono poi, in serie, i comunicati. Non sarò certo io a sottolineare che le prime azioni delle BR erano talmente poco credibili che solo i giornali di destra ne davano notizia. Diventarono assai più pesanti col tempo, quando l’idea del diritto proletario attecchì nella società. Al di là del folklore iniziale, le BR rivelarono una strategia – pescata un po’ sui libri o ricopiata dalle mozioni dei paesi sudamericani. Se n’è parlato in abbondanza.

Curzia Ferrari, scrittrice, giornalista d’opinione, studiosa di letteratura dell’Est. Tra i suoi libri più importanti: Gorkij fra la critica e il dogma, Isadora, Majakovskij, la storia e il romanzo, Memorie del processo Slanskij, traduttrice dei poemi di Viktòr Sosnòra e di molti altri poeti dell’Urss. Autrice di sceneggiati Tv, del programma “Poesia nel mondo” e di altri programmi letterari. Quattro volte Premio della “Presidenza del Consiglio”, medaglia d’oro di benemerenza civica di Milano, dove è nata, premio “Caterina Imperatrice” per la diffusione della cultura russa in Italia e altre onorificenze. È tradotta in tredici paesi.



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La parola “ossessione” č quella che attira in primis l’attenzione su questo libro, sull’avventurismo del fenomeno Brigate Rosse nel periodo cosiddetto della propaganda armata. Il terreno era preparato da tempo perché le notizie sulla direttiva e sulle imprese dei dissidenti, per altro...

Dott.ssa Curzia Ferrari, Lei è autrice del libro L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974). La parabola della “propaganda armata” edito da Gammarò: qual è il significato dell’ossessione cui Lei accenna?

La parola “ossessione” è quella che attira in primis l’attenzione su questo libro, sull’avventurismo del fenomeno Brigate Rosse nel periodo cosiddetto della propaganda armata. Il terreno era preparato da tempo perché le notizie sulla direttiva e sulle imprese dei dissidenti, per altro sempre frenate dalla comunicazione del Partito Comunista, arrivavano comunque all’opinione pubblica. Dalle università, a cominciare da quella di Trento, l’enfatizzazione della protesta – da sottolineare, al principio emancipatrice e non repressiva – si infiltrava nel quotidiano, sicché si cominciò a pensare alla possibilità di una società alternativa. I telegiornali, spesso in apertura, facevano i nomi di Renato Curcio, di Mario Rostagno (poi vittima di se stesso) – e io, che potevo ricevere notizie quotidiane da un personaggio dell’Arma, poi appartenente al selezionato gruppo antiterrorismo di Torino – cominciai a raccogliere le tessere del mosaico che compongono questo libro: insomma le BR divennero la mia ossessione. Ancorché votata all’antropologia biografica, coltivo per altro verso l’attitudine a vivere nel mio tempo, “adattandomi” al tempo, cosa che rende la cronaca interessante quanto la letteratura e la poesia.

In quale contesto politico e sociale nascono le Brigate Rosse?
Le Brigate Rosse vengono da lontano rispetto alle presunte date della loro formazione effettiva e del generico collegamento fra studenti e masse operaie. Dal 1961 in poi è un fiorire di riviste e quaderni rossi che, più o meno onestamente, denunciavano lo scricchiolare di una società talmente adagiata nel benessere del dopoguerra da passare alla storia come la società d’oro del secolo XX°. Sono i favolosi Anni Sessanta del boom economico, della beat generation, della musica pop, dell’Apollo 11 che tocca il suolo lunare, dell’incontro fra Rada Krusciov e Papa Roncalli e, non è poca cosa, del primo governo italiano di centro-sinistra. Ma è anche il tempo del colossale sciopero dei minatori francesi (1964) che scuote l’Europa, e nel 1968 il faticoso e non riuscito tentativo di ricucitura di Pompidou fra la coalizione di studenti e l’imprenditoria, negoziato dai sindacati. Io sono una scrittrice – non una storica. E forse per questo mi è sempre stato chiaro il polverone causato dall’incrocio fra il positivo e il negativo sociale (almeno come ognuno li intende), e che i giovani rappresentano un punto di incisione nella storia. Rimproverano ai maestri l’agiatezza sociale, il credo spirituale, il modo di condurre i rapporti fra le categorie ( dai cancelli delle miniere francesi uscì il grido, poi dovunque dilagatosi: “Cours camarade, le vieux mond est dernière toi.”), anelano a nuovi statuti. Giovani e lavoratori – con punti di riferimento talora diversi, nell’assurdo di voler applicare a tutti i precetti dogmatici di Lenin, di Mao o di Che Guevara con la sua guerriglia contro l’imperialismo. La cosiddetta repressione padronale in fabbrica è altra cosa (se ne ha una testimonianza nel presente volume), ed è la figlia del cumulo di volantini, manifesti, istigazioni, piccole rappresaglie relative all’odio sociale e alla confusione cui alludevo prima: almeno fino al momento in cui Renato Curcio e Margherita Cagol, resuscitando le ceneri di un bollettino del Centro Informazioni di Verona, diedero vita alla rivista “Lavoro Politico”. Si tratta di un periodico mensile a carattere monografico, giocato sul dialogo fra cattolici e comunisti, nonché – ecco ciò che ritengo come il il punto nodale – sul tema della scuola e del linguaggio. La repressione e la rivolta, al di là di un giudizio politico di parte, generano sempre un modo nuovo di esprimersi: direi anzi che la rottura del linguaggio è l’anticipazione dell’urto sociale che sta per compiersi. Lo dimostra, nel nostro caso, la nascita del Gruppo 63 che giusto in quell’anno, opponendosi con il convegno di Palermo a una cifra stilistica considerata logora, inquietò i massimi sistemi della letteratura. Sostenuto dall’editore Feltrinelli, che in questa cultura del dissenso linguistico vide profilarsi una neoavanguardia proiettata in area ideologica, il Gruppo 63 può essere considerato una delle sorgenti della contestazione politica. L’avventura del movimento affondò nel travaglio e nell’equivoco. L’editore Feltrinelli, frustrato dall’insuccesso, ci rimise un bel po’ di soldi; ma il suo retorico orgoglio non abbandonò la sfida che si allungava fuori dai confini espressivi, intenti alla scoperta di un nuovo modo di comunicare.

Nel libro Lei evidenzia come le BR fossero finanziate da Giangiacomo Feltrinelli; d’altra parte, argomenta, «chi ha finanziato le BR nei loro primi diciotto mesi di vita se la serie delle grandi rapine commesse da Curcio e compagni, sebbene non rivendicate, comincia il 20 maggio del 1972 con l’assalto a un istituto di credito presso Reggio Emilia, quarantaquattro giorni dopo» la morte dell’editore sotto il traliccio di Segrate: quale collegamento esisteva tra Feltrinelli e l’attività delle BR?
Sì, c’è un profondo dissidio fra il concetto destabilizzante dello stato di Feltrinelli e lo sviluppo non solo culturale della lotta armata. Senza dubbio egli provvide, non sapremo mai in quanta parte, ai bisogni dei brigatisti. A loro sembrava un po’ tirchio se lo sollecitavano, come abbiamo letto, a dare di più. Feltrinelli, del resto, aveva reso esangue la sua casa editrice con l’avventura del Gruppo 63 – autori invenduti, in gran parte immaginati come arma per colpire il nemico. Dopo la sua morte, nella confusione suscitata dall’evento, i brigatisti temettero forse di perdere la faccia, insieme al foraggiamento: non a caso c’è, poco dopo, l’assalto all’istituto di credito di Reggio Emilia. Ma c’è anche il loro secondo documento teorico che evidenzia le linee della guerra di classe. L’infantilismo è dichiarato come deleterio, sebbene in certe azioni il timbro tupamaros non riesca a scomparire. Il Sessantotto prima del Sessantotto e il Sessantotto di Feltrinelli verranno decisamente e tristemente superati con il lungo sequestro di Mario Sossi.

Quali misteri avvolgono la morte di Giangiacomo Feltrinelli?
Ci sono misteri destinati a restare tali perché di ordine personale, psicologico. Il ricco e blasonato Feltrinelli che si sporca le mani e il viso di fuliggine, resta giorni e giorni senza lavarsi e veste tute strappate per somigliare agli operai, suscita non pochi sospetti sulla stabilità della sua mente. Lui – che in gioventù esibiva grande adesione al fascismo, tanto da tappezzare la propria casa con manifesti inneggianti al Duce nonchè alla vittoria delle forze dell’Asse – e di colpo cambiò direzione, fulminato sulla via di Damasco da una conversazione con Trombadori. Lasciato agli analisti il problema, in mano ci resta ben poco. La sua autobiografia è colma di nomi, sappiamo dei suoi viaggi e dei suoi incontri con Guevara, Castro, Régis Débray, un giornalista francese che aveva preso parte alle azioni di guerriglia del Che, dell’estrema follia di trasformare la Sardegna in una Cuba nostrana – ma il bandito Mesina, interpellato per la faccenda, non gli dà retta e si rifiuta di collaborare al progetto… Lui ci resta male…E allora? All’impresa di Segrate, Feltrinelli fu spinto probabilmente dal desiderio di dimostrare che era qualcuno: gli andò male e ci lasciò la pelle.

Sempre nel libro, Lei scrive: «nelle azioni delinquenziali delle BR c’è una certa razionalità culturale che ha come termine di riferimento il pensiero, cioè l’ideologia, Feltrinelli ha incarnato nella storia del terrorismo il regresso irrazionale, l’infantilismo e una forma di violenza che finisce per rafforzare i cardini dello sfruttamento capitalistico»: quali conseguenze produsse la morte di Feltrinelli?
Nessuna conseguenza rilevante, io credo, tranne una diminuzione del foraggiamento. Fu anche, sotto il profilo politico, una liberazione. I messaggi delle BR, già da un anno dopo la formazione dei primi nuclei,. non possono essere letti dentro le loro singole azioni. Il concetto fochista è superato dalla ratio –  altrimenti la lotta armata si rovescia in spunti singoli, dove si pensa che basti mordere: la riflessione teorico-politica delle BR è contraria a chi agisce autonomamente e non per conto dell’organizzazione.

Quali azioni di lotta armata adottarono le BR e quale evoluzione ne caratterizzò la strategia?
La lotta armata delle BR inizia con l’inondazione del Nord-Italia di volantini, manifesti, materiale propagandistico vario, e slogan trasmessi fuori dalle fabbriche. Nascono poi, in serie, i comunicati. Non sarò certo io a sottolineare che le prime azioni delle BR erano talmente poco credibili che solo i giornali di destra ne davano notizia. Diventarono assai più pesanti col tempo, quando l’idea del diritto proletario attecchì nella società. Al di là del folklore iniziale, le BR rivelarono una strategia – pescata un po’ sui libri o ricopiata dalle mozioni dei paesi sudamericani. Se n’è parlato in abbondanza.

Curzia Ferrari, scrittrice, giornalista d’opinione, studiosa di letteratura dell’Est. Tra i suoi libri più importanti: Gorkij fra la critica e il dogma, Isadora, Majakovskij, la storia e il romanzo, Memorie del processo Slanskij, traduttrice dei poemi di Viktòr Sosnòra e di molti altri poeti dell’Urss. Autrice di sceneggiati Tv, del programma “Poesia nel mondo” e di altri programmi letterari. Quattro volte Premio della “Presidenza del Consiglio”, medaglia d’oro di benemerenza civica di Milano, dove è nata, premio “Caterina Imperatrice” per la diffusione della cultura russa in Italia e altre onorificenze. È tradotta in tredici paesi.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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