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Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille
SoloLibri.net di mercoledě 10 novembre 2021
Riedito nel 2020 č l’edizione piů recente della versione definitiva del diario postumo agli eventi di uno dei protagonisti della spedizione. In appendice, il taccuino “Maggio 1960”, con gli autentici appunti sul campo

di Felice Laudadio

Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte arriveremo al migliaio”. Il 5 maggio 1861, la nota cita i due piroscafi “sottratti” alla Compagnia armatoriale Rubattino, su cui sono imbarcate le camicie rosse nell’imminenza di salpare in Sicilia. L’estensore è Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), tra i protagonisti dell’impresa garibaldina e autore dello storico diario della spedizione, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, edito nel 2015 e riproposto nella più recente edizione a luglio 2020 da Gammarò Edizioni, del Gruppo Oltre di Sestri Levante, con il breve testo in appendice Maggio 1860 (nel complesso, 240 pagine).

Non c’è dubbio che la memorialistica garibaldina, le pagine cronistiche di Dumas e la stampa britannica abbiano amplificato la leggenda dell’eroe dei due mondi, ma in un’Italia per tre quarti analfabeta al censimento 1861 non furono certo i libri a divulgare il mito di Giuseppe Garibaldi, osserva il prof. Francesco De Nicola nella prefazione. Per il docente di letteratura italiana dell’Università di Genova, la polarità universale dell’eroe dei due mondi è nata dalla “copiosa iconografia affidata a ritratti sempre più numerosi”, dalle innumerevoli illustrazioni e dalle centinaia di statue sorte nelle piazze e giardini pubblici.

Non intende negare tuttavia la funzione mitopoietica della storiografia. Con il successo delle imprese di Garibaldi, cominciarono a circolare i primi testi diaristici che testimoniavano quanto gli stessi autori avevano compiuto. Abba si distingue in questo novero, che comprende Alexandre Dumas padre — al seguito della spedizione dei Mille — Ippolito Nievo, Alberto Mario, Giuseppe Bandi, prima del livornese Eugenio Checchi e di altri delle imprese successive.

Ligure di Cairo Montenotte, Abba aveva partecipato ventenne alla Seconda guerra d’indipendenza nel 1859, tra i Cavalleggeri di Aosta, che non presero parte attiva ai combattimenti. Animato da spirito patriottico e deciso a fare la sua parte per l’Italia unita, si era unito semplice volontario ai Mille, concorrendo all’intera impresa, dallo sbarco a Marsala alla battaglia del Volturno e meritando la promozione a sottotenente.

La redazione delle sue memorie garibaldine ha richiesto un processo lungo, articolato in sette versioni-edizioni e comunque postumo rispetto agli eventi, sebbene si sia ritenuto a lungo che le noterelle fossero il diario autentico, annotato durante la spedizione. Questo, fino alla pubblicazione, nel 1933, a cura di Gino Bandini, del taccuino Maggio 1860, che contiene i veri appunti redatti sul campo, limitati alle giornate tra il 5 e il 26 maggio 1860. Le memorie di Abba sono quindi il risultato di un perfezionamento progressivo, che parte dalle note esplicative al pometto romantico Arrigo. Da Quarto al Volturno nel 1866, passa dalle prime Noterelle date alle stampe nel 1877 e arriva alla versione di cui ci stiamo occupando. Tre stesure anche per questa: la prima nel 1880 e la definitiva nel 1891, quella riprodotta da Gammarò.

Molto più breve il taccuino steso durante le operazioni. È in appendice a questo volume, col titolo del 1933.
De Nicola coglie una chiara differenza stilistica tra l’abbozzo Maggio 1860 e il diario finale. Gli appunti a futuro sviluppo del volontario garibaldino riportano i fatti schematicamente, Abba non si cura della forma e non si preoccupa di dare una veste al contenuto. Un promemoria redatto ad uso personale, “una successione di rapide note slegate che fermano in una frase sintetica e, spesso, quasi convulsa, una visione del momento e il balenare di un sentimento o di una riflessione”. Nella versione del 1991 gli stessi episodi sono ampliati e articolati, passando quasi sempre dall’impressione alla narrazione, talvolta anche alla drammatizzazione. E i dialoghi diventano una componente rilevante, usati per dare risalto al pensiero e al carattere dei personaggi.

Da Quarto al Volturno, continua il professore, è indubbiamente un diario romanzato della spedizione dei Mille, una tra le tessere più importanti del grande mosaico del mito di Garibaldi, che vi figura in modo quasi marginale, con apparizioni rapide e incisive. Ma può essere letto anche come la scoperta per un italiano del Nord di una parte molto ampia del suo nuovo Paese, sconosciuta tanto a lui che alla maggior parte dei compagni d’arme liguri, piemontesi, veneti e lombardi. Pur non potendo fare a meno di notare “la miseria, la fame e la mendicità” della popolazione, sottoposta alla “doppia tirannide sacerdotale e laicale”, Abba avvertiva l’esigenza di far sentire come connazionali anche quei siciliani e meridionali fino ad allora lontani, per geografia, cittadinanza e status di sudditi di una monarchia assoluta.

Un ben chiaro disegno patriottico, allo stesso tempo politico e morale (dimensione sottolineata da Benedetto Croce), oggi ignorato dalla querelle contemporanea antiunitaria, che scalfisce anche il prestigio di Garibaldi. Sono le polemiche sollevate dal revisionismo neoborbonico, che occupa un segmento della pubblicistica e qualche spazio nel web, ma incontra la disapprovazione della storiografia accreditata, con in testa lo storico e politologo Ernesto Galli Della Loggia e il prof. Alessandro Barbero, ordinario di storia nell’Università del Piemonte Orientale. Non certo esponenti della destra ideologica.



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Riedito nel 2020 č l’edizione piů recente della versione definitiva del diario postumo agli eventi di uno dei protagonisti della spedizione. In appendice, il taccuino “Maggio 1960”, con gli autentici appunti sul campo

di Felice Laudadio

Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte arriveremo al migliaio”. Il 5 maggio 1861, la nota cita i due piroscafi “sottratti” alla Compagnia armatoriale Rubattino, su cui sono imbarcate le camicie rosse nell’imminenza di salpare in Sicilia. L’estensore è Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), tra i protagonisti dell’impresa garibaldina e autore dello storico diario della spedizione, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, edito nel 2015 e riproposto nella più recente edizione a luglio 2020 da Gammarò Edizioni, del Gruppo Oltre di Sestri Levante, con il breve testo in appendice Maggio 1860 (nel complesso, 240 pagine).

Non c’è dubbio che la memorialistica garibaldina, le pagine cronistiche di Dumas e la stampa britannica abbiano amplificato la leggenda dell’eroe dei due mondi, ma in un’Italia per tre quarti analfabeta al censimento 1861 non furono certo i libri a divulgare il mito di Giuseppe Garibaldi, osserva il prof. Francesco De Nicola nella prefazione. Per il docente di letteratura italiana dell’Università di Genova, la polarità universale dell’eroe dei due mondi è nata dalla “copiosa iconografia affidata a ritratti sempre più numerosi”, dalle innumerevoli illustrazioni e dalle centinaia di statue sorte nelle piazze e giardini pubblici.

Non intende negare tuttavia la funzione mitopoietica della storiografia. Con il successo delle imprese di Garibaldi, cominciarono a circolare i primi testi diaristici che testimoniavano quanto gli stessi autori avevano compiuto. Abba si distingue in questo novero, che comprende Alexandre Dumas padre — al seguito della spedizione dei Mille — Ippolito Nievo, Alberto Mario, Giuseppe Bandi, prima del livornese Eugenio Checchi e di altri delle imprese successive.

Ligure di Cairo Montenotte, Abba aveva partecipato ventenne alla Seconda guerra d’indipendenza nel 1859, tra i Cavalleggeri di Aosta, che non presero parte attiva ai combattimenti. Animato da spirito patriottico e deciso a fare la sua parte per l’Italia unita, si era unito semplice volontario ai Mille, concorrendo all’intera impresa, dallo sbarco a Marsala alla battaglia del Volturno e meritando la promozione a sottotenente.

La redazione delle sue memorie garibaldine ha richiesto un processo lungo, articolato in sette versioni-edizioni e comunque postumo rispetto agli eventi, sebbene si sia ritenuto a lungo che le noterelle fossero il diario autentico, annotato durante la spedizione. Questo, fino alla pubblicazione, nel 1933, a cura di Gino Bandini, del taccuino Maggio 1860, che contiene i veri appunti redatti sul campo, limitati alle giornate tra il 5 e il 26 maggio 1860. Le memorie di Abba sono quindi il risultato di un perfezionamento progressivo, che parte dalle note esplicative al pometto romantico Arrigo. Da Quarto al Volturno nel 1866, passa dalle prime Noterelle date alle stampe nel 1877 e arriva alla versione di cui ci stiamo occupando. Tre stesure anche per questa: la prima nel 1880 e la definitiva nel 1891, quella riprodotta da Gammarò.

Molto più breve il taccuino steso durante le operazioni. È in appendice a questo volume, col titolo del 1933.
De Nicola coglie una chiara differenza stilistica tra l’abbozzo Maggio 1860 e il diario finale. Gli appunti a futuro sviluppo del volontario garibaldino riportano i fatti schematicamente, Abba non si cura della forma e non si preoccupa di dare una veste al contenuto. Un promemoria redatto ad uso personale, “una successione di rapide note slegate che fermano in una frase sintetica e, spesso, quasi convulsa, una visione del momento e il balenare di un sentimento o di una riflessione”. Nella versione del 1991 gli stessi episodi sono ampliati e articolati, passando quasi sempre dall’impressione alla narrazione, talvolta anche alla drammatizzazione. E i dialoghi diventano una componente rilevante, usati per dare risalto al pensiero e al carattere dei personaggi.

Da Quarto al Volturno, continua il professore, è indubbiamente un diario romanzato della spedizione dei Mille, una tra le tessere più importanti del grande mosaico del mito di Garibaldi, che vi figura in modo quasi marginale, con apparizioni rapide e incisive. Ma può essere letto anche come la scoperta per un italiano del Nord di una parte molto ampia del suo nuovo Paese, sconosciuta tanto a lui che alla maggior parte dei compagni d’arme liguri, piemontesi, veneti e lombardi. Pur non potendo fare a meno di notare “la miseria, la fame e la mendicità” della popolazione, sottoposta alla “doppia tirannide sacerdotale e laicale”, Abba avvertiva l’esigenza di far sentire come connazionali anche quei siciliani e meridionali fino ad allora lontani, per geografia, cittadinanza e status di sudditi di una monarchia assoluta.

Un ben chiaro disegno patriottico, allo stesso tempo politico e morale (dimensione sottolineata da Benedetto Croce), oggi ignorato dalla querelle contemporanea antiunitaria, che scalfisce anche il prestigio di Garibaldi. Sono le polemiche sollevate dal revisionismo neoborbonico, che occupa un segmento della pubblicistica e qualche spazio nel web, ma incontra la disapprovazione della storiografia accreditata, con in testa lo storico e politologo Ernesto Galli Della Loggia e il prof. Alessandro Barbero, ordinario di storia nell’Università del Piemonte Orientale. Non certo esponenti della destra ideologica.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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