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Tutta la poesia che c’è nel jazz
L'Ottavo di martedì 18 gennaio 2022
Non ho mai amato il jazz, non ne ho mai fatto un mistero e Nicola lo sa bene.

Non so perché ho sempre considerato la sua estemporaneità come una mera esibizione di maestria e i fan di questo genere musicale persone intente più ad apparire intelligenti

di Ivano Ciminari

Non ho mai amato il jazz, non ne ho mai fatto un mistero e Nicola lo sa bene.

Non so perché ho sempre considerato la sua estemporaneità come una mera esibizione di maestria e i fan di questo genere musicale persone intente più ad apparire intelligenti, che a provare le emozioni vere che la musica deve dare, un po’ come gli appassionati della noiosissima musica da camera o, peggio ancora, della lirica, generi che non comprendo e che considero clisteri auditivi.

Probabilmente questo modo di vedere le cose è dato dalla mia assoluta ignoranza musicale ed alla mancanza di un retroterra culturale che non mi consente di apprezzare questi generi, ma anche un uomo attempatello come me, può acculturarsi e così ho tentato di fare leggendo Arrivano le parole del jazz.

Conosco Nicola Vacca e gli riconosco da sempre un’intelligenza ed una sensibilità artistica e poetica fuori dal comune e proprio in virtù di questo mi sono accostato ad alcuni dei pezzi musicali ai quali fa riferimento nel  suo libro Arrivano parole dal jazz

Non è stato semplice per me: rivedere le convinzioni maturate nella vita non lo è mai, così come è estremamente difficile aprire la mente a ciò che si è sempre rifiutato, ma Nicola è uomo onesto, che non ha bisogno di apparire intelligente, anzi di apparire intelligente non gli frega proprio nulla e proprio questa considerazione mi ha spinto a cercare ciò che non vedevo.

Sulle prime il semplice ascolto non è bastato, continuavo a non trovare nulla che mi coinvolgesse, così ho provato ad ascoltare mentre leggevo i versi di Nicola e questa è stata la chiave di volta.

La mia impressione è che il libro non parli di jazz, delle sue note in apparenza disordinate e sconnesse, ma delle ragioni del jazz, del suo perché, di quella sensazione di libertà che condusse un uomo a staccarsi dai canoni consolidati della musica “comprensibile” per sperimentare un estremo, una terra di nessuno.

E probabilmente la radice del jazz, la sua ragion d’essere, sta proprio nella sua inintelligibilità, nel considerare per la prima volta chi ascolta non un semplice fruitore, ma un partecipante attivo di qualcosa che è origine e fine di sé, di un momento irripetibile che non accadrà più.

Nicola ha calcolato tutto questo con maestria luciferina, non ha regalato nulla, scaricando sul lettore i suoi versi asciutti, dai quali strappare a morsi brevi squarci da elaborare con la propria sensibilità

Non entro nel merito della poesia di Nicola, altri lo hanno fatto e lo faranno ancora e poi lui non ha certo bisogno di ulteriori riconoscimenti, il sangue con cui scrive i suoi versi, la quotidianità che dipinge tra le righe senza cedere mai alle lusinghe dell’aggettivazione lo hanno reso ciò che è, non sono certo io a scoprirlo.

Ma in questo libro va oltre, i versi che colorano le illustrazioni appena accennate, non sono il nucleo di “Arrivano le parole del jazz”, la vera sostanza è altrove, tra le note che accompagnano la contemplazione e la conoscenza delle vicende umane degli artisti, il loro “sentire” la musica ed il loro interpretarla come cassa di risonanza di qualcosa di intimamente percepito, fino a rendere le note una sequenza di immagini che si sovrappongono a dare un senso all’apparente non senso.

Probabilmente il messaggio è proprio questo: il jazz è traccia di un caos primevo dal quale scaturisce la creazione di nuovi confini ed ogni nota, all’apparenza spettinata, porta con sé l’imprevedibilità che è l’esoscheletro di una percezione reale e sofferta della realtà che ci circonda.

Forse non amerò mai il jazz, ma Nicola mi ha fornito gli strumenti per metterlo in valigia, smettendo di sdoganarlo sdegnosamente, ho letto la prima pagina con un po’ di spocchia e sono arrivato alla fine ritrovandomi con le pive nel sacco.

Essere diabolico questo Nicola vacca!



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L'Ottavo - martedì 18 gennaio 2022
Non ho mai amato il jazz, non ne ho mai fatto un mistero e Nicola lo sa bene.

Non so perché ho sempre considerato la sua estemporaneità come una mera esibizione di maestria e i fan di questo genere musicale persone intente più ad apparire intelligenti

di Ivano Ciminari

Non ho mai amato il jazz, non ne ho mai fatto un mistero e Nicola lo sa bene.

Non so perché ho sempre considerato la sua estemporaneità come una mera esibizione di maestria e i fan di questo genere musicale persone intente più ad apparire intelligenti, che a provare le emozioni vere che la musica deve dare, un po’ come gli appassionati della noiosissima musica da camera o, peggio ancora, della lirica, generi che non comprendo e che considero clisteri auditivi.

Probabilmente questo modo di vedere le cose è dato dalla mia assoluta ignoranza musicale ed alla mancanza di un retroterra culturale che non mi consente di apprezzare questi generi, ma anche un uomo attempatello come me, può acculturarsi e così ho tentato di fare leggendo Arrivano le parole del jazz.

Conosco Nicola Vacca e gli riconosco da sempre un’intelligenza ed una sensibilità artistica e poetica fuori dal comune e proprio in virtù di questo mi sono accostato ad alcuni dei pezzi musicali ai quali fa riferimento nel  suo libro Arrivano parole dal jazz

Non è stato semplice per me: rivedere le convinzioni maturate nella vita non lo è mai, così come è estremamente difficile aprire la mente a ciò che si è sempre rifiutato, ma Nicola è uomo onesto, che non ha bisogno di apparire intelligente, anzi di apparire intelligente non gli frega proprio nulla e proprio questa considerazione mi ha spinto a cercare ciò che non vedevo.

Sulle prime il semplice ascolto non è bastato, continuavo a non trovare nulla che mi coinvolgesse, così ho provato ad ascoltare mentre leggevo i versi di Nicola e questa è stata la chiave di volta.

La mia impressione è che il libro non parli di jazz, delle sue note in apparenza disordinate e sconnesse, ma delle ragioni del jazz, del suo perché, di quella sensazione di libertà che condusse un uomo a staccarsi dai canoni consolidati della musica “comprensibile” per sperimentare un estremo, una terra di nessuno.

E probabilmente la radice del jazz, la sua ragion d’essere, sta proprio nella sua inintelligibilità, nel considerare per la prima volta chi ascolta non un semplice fruitore, ma un partecipante attivo di qualcosa che è origine e fine di sé, di un momento irripetibile che non accadrà più.

Nicola ha calcolato tutto questo con maestria luciferina, non ha regalato nulla, scaricando sul lettore i suoi versi asciutti, dai quali strappare a morsi brevi squarci da elaborare con la propria sensibilità

Non entro nel merito della poesia di Nicola, altri lo hanno fatto e lo faranno ancora e poi lui non ha certo bisogno di ulteriori riconoscimenti, il sangue con cui scrive i suoi versi, la quotidianità che dipinge tra le righe senza cedere mai alle lusinghe dell’aggettivazione lo hanno reso ciò che è, non sono certo io a scoprirlo.

Ma in questo libro va oltre, i versi che colorano le illustrazioni appena accennate, non sono il nucleo di “Arrivano le parole del jazz”, la vera sostanza è altrove, tra le note che accompagnano la contemplazione e la conoscenza delle vicende umane degli artisti, il loro “sentire” la musica ed il loro interpretarla come cassa di risonanza di qualcosa di intimamente percepito, fino a rendere le note una sequenza di immagini che si sovrappongono a dare un senso all’apparente non senso.

Probabilmente il messaggio è proprio questo: il jazz è traccia di un caos primevo dal quale scaturisce la creazione di nuovi confini ed ogni nota, all’apparenza spettinata, porta con sé l’imprevedibilità che è l’esoscheletro di una percezione reale e sofferta della realtà che ci circonda.

Forse non amerò mai il jazz, ma Nicola mi ha fornito gli strumenti per metterlo in valigia, smettendo di sdoganarlo sdegnosamente, ho letto la prima pagina con un po’ di spocchia e sono arrivato alla fine ritrovandomi con le pive nel sacco.

Essere diabolico questo Nicola vacca!



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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