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Matto da morire. Un’indagine del colonnello Nicola Stauder
Sololibri.net di sabato 12 novembre 2022
In un eccellente poliziesco, ambientato in Versilia, il giornalista, saggista Pier Mario Fasanotti propone la figura di un colonnello dei Carabinieri davvero irresistibile, che certamente i lettori si augureranno di rileggere presto in azione.

di Felice Laudadio

Due proiettili di pistola nell’emitorace sinistro, zona cardiaca. Ma che motivo c’era per colpire l’innocuo Paolino? Quali nemici poteva avere col suo cervello non del tutto a posto, di bambinone trentunenne?
Paolino “lo Strano”, buono come il pane, mai molesto a parte brevissimi scatti d’ira. Ucciso in piazza, a Pietrasanta, davanti al teatrino ambulante dove il burattino Gioppino mena bastonate a cattivi, traditori e streghe, per la gioia degli spettatori più piccoli.
È un triste 28 agosto ai piedi delle Apuane, nel poliziesco di Pier Mario Fasanotti Matto da morire. Un’indagine del colonnello Nicola Stauder, dal 10 giugno 2022 nella collana Narrativa delle Edizioni Oltre di Sestri Levante.

Si fa festa grande a Pietrasanta per Sant’Ermete, la ricorrenza che volta pagina all’estate versiliese. Agosto chiude in baldoria, l’alta stagione è alle spalle, si passa agli scampoli settembrini di mare, le giornate sono più corte e le nuvole si affacciano di frequente sopra i monti del marmo.

Una vittima innocente, una baracchina d’altri tempi che dispensa risate a modico prezzo con i piccoli attori di legno e di stoffa che parlano con la voce chioccia. Cinque file di sedie e sgabelli di plastica davanti al “palcoscenico incastonato in uno sfibrato Volkswagen diesel”, ora deserte a parte il povero Paolino, in bilico sopra una seggiola, con una macchia scura sul petto della maglietta rossa scolorita e unta, sopra i calzoni corti beige. Sul volto un’espressione stupita, sembra chiedersi “che ho fatto di male?”.

È malinconico l’avvio di questo giallo di provincia, ottimo lavoro di un autore collaudato e versatile. Giornalista (Ansa, La Stampa, Panorama), Pier Mario Fasanotti vive in Piemonte e scrive anche poesie (premiate al Viareggio), tre saggi sui grandi casi giudiziari italiani del dopoguerra, una biografia di Salvador Dalì, una ventina di racconti per ragazzi, quattro testi teatrali. Da romanziere, ha la mano felice, a giudicare dalle dall’eleganza con cui presenta in poche righe il colonnello dei Carabinieri, Nicola Stauder.
Dopo anni di servizio nell’antiterrorismo e indagini delicate a contatto con infiltrati e informatori, doppiati i cinquanta è una specie di jolly della Benemerita, lo incaricano di risolvere situazioni delicate in giro. Spostarsi gli piace, è dotato di eccezionale intuizione, innato savoir faire e da uomo molto piacente sa essere sornione se il copione lo richiede, soprattutto con le donne, ma dannatamente tosto quando c’è da inchiodare colpevoli.

La destinazione della nuova trasferta è Pietrasanta, in Versilia. Il caso non va avanti: il comandante è fuori gioco per un brutto tumore, i sottoposti non sono aquile, la stampa del posto non concede tregua su quell’omicidio senza una ragione. C’è anche di peggio: alte pressioni. Un prelato importante, lontano parente della vittima, ha mosso qualche politico e un superiore dell’Arma si è fatto commuovere.
Il colonnello raggiunge in borghese l’albergo Sonja, dove alloggerà e apprendiamo che ha il vezzo di classificare ogni persona adattando istintivamente un profiling. Ad esempio, la piacente vedova sulla quarantina proprietaria del piccolo hotel può entrare nella categoria donne sole con fantasie mutanti, che non si liberano da un senso di disagio sottopelle e parlano più con se stesse che con gli altri, anche in compagnia.
Deformazione professionale, ma Stauder rischia di esagerare, riempe sagome virtuali delle persone cercando di definire un profilo. La moglie francese Sophie lo rimproverava sorridendo, gli contestava di guardare tutti come indagati.

Il cinquantacinquenne colonnello è riminese, famiglia di lontane origini austriache.
Diventato romano d’adozione, è vedovo. Sophie gli è stata uccisa al fianco, in Piazza Mazzini, da un commando dell’eversione residuale, quando colpire un ufficiale dell’antiterrorismo non avrebbe dato alle bande armate un’ora di vita in più.
La mamma di Paolino conferma che il ragazzo non aveva ordine in testa, ma parlava poco e non si agitava mai “come i matti, quelli veri”.
In casa era tranquillo e fuori sempre rispettoso con tutti. Lo chiamavano l’assessore, senza cattiveria, per ridere, perchè insisteva di volere risistemare Pietrasanta. Sognava di costruire tante casette uguali, di colore diverso. E le disegnava, con tratti infantili, ma in un modo sotto qualche aspetto molto preciso. Una specie di città di Lego su carta, vista dall’alto. Strade diritte, piazze rotonde con al centro fontanelle o aiuole. Persino stop e strisce bianche e nere, ponticelli sopra brevi canali. Una cittadina simile a quella di Topolino. E colori, tanti colori, a parte un caseggiato lugubremente nero, come un segnale d’allarme, presente in quattro disegni.

C’è di strano che la famiglia ha ricevuto la visita di due che si sono qualificati Carabinieri, uno in divisa l’altro in borghese. Dopo un’ora di ricerche, sono andati via senza trovare niente e non si sono rivelati affatto gentili, come si stanno dimostrando invece il colonnello Stauder e il brigadiere Corsi. Da un rapido controllo, non risulta che l’Arma abbia ritenuto necessario un sopralluogo in casa del povero Paolino, tanto meno una perquisizione...



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In un eccellente poliziesco, ambientato in Versilia, il giornalista, saggista Pier Mario Fasanotti propone la figura di un colonnello dei Carabinieri davvero irresistibile, che certamente i lettori si augureranno di rileggere presto in azione.

di Felice Laudadio

Due proiettili di pistola nell’emitorace sinistro, zona cardiaca. Ma che motivo c’era per colpire l’innocuo Paolino? Quali nemici poteva avere col suo cervello non del tutto a posto, di bambinone trentunenne?
Paolino “lo Strano”, buono come il pane, mai molesto a parte brevissimi scatti d’ira. Ucciso in piazza, a Pietrasanta, davanti al teatrino ambulante dove il burattino Gioppino mena bastonate a cattivi, traditori e streghe, per la gioia degli spettatori più piccoli.
È un triste 28 agosto ai piedi delle Apuane, nel poliziesco di Pier Mario Fasanotti Matto da morire. Un’indagine del colonnello Nicola Stauder, dal 10 giugno 2022 nella collana Narrativa delle Edizioni Oltre di Sestri Levante.

Si fa festa grande a Pietrasanta per Sant’Ermete, la ricorrenza che volta pagina all’estate versiliese. Agosto chiude in baldoria, l’alta stagione è alle spalle, si passa agli scampoli settembrini di mare, le giornate sono più corte e le nuvole si affacciano di frequente sopra i monti del marmo.

Una vittima innocente, una baracchina d’altri tempi che dispensa risate a modico prezzo con i piccoli attori di legno e di stoffa che parlano con la voce chioccia. Cinque file di sedie e sgabelli di plastica davanti al “palcoscenico incastonato in uno sfibrato Volkswagen diesel”, ora deserte a parte il povero Paolino, in bilico sopra una seggiola, con una macchia scura sul petto della maglietta rossa scolorita e unta, sopra i calzoni corti beige. Sul volto un’espressione stupita, sembra chiedersi “che ho fatto di male?”.

È malinconico l’avvio di questo giallo di provincia, ottimo lavoro di un autore collaudato e versatile. Giornalista (Ansa, La Stampa, Panorama), Pier Mario Fasanotti vive in Piemonte e scrive anche poesie (premiate al Viareggio), tre saggi sui grandi casi giudiziari italiani del dopoguerra, una biografia di Salvador Dalì, una ventina di racconti per ragazzi, quattro testi teatrali. Da romanziere, ha la mano felice, a giudicare dalle dall’eleganza con cui presenta in poche righe il colonnello dei Carabinieri, Nicola Stauder.
Dopo anni di servizio nell’antiterrorismo e indagini delicate a contatto con infiltrati e informatori, doppiati i cinquanta è una specie di jolly della Benemerita, lo incaricano di risolvere situazioni delicate in giro. Spostarsi gli piace, è dotato di eccezionale intuizione, innato savoir faire e da uomo molto piacente sa essere sornione se il copione lo richiede, soprattutto con le donne, ma dannatamente tosto quando c’è da inchiodare colpevoli.

La destinazione della nuova trasferta è Pietrasanta, in Versilia. Il caso non va avanti: il comandante è fuori gioco per un brutto tumore, i sottoposti non sono aquile, la stampa del posto non concede tregua su quell’omicidio senza una ragione. C’è anche di peggio: alte pressioni. Un prelato importante, lontano parente della vittima, ha mosso qualche politico e un superiore dell’Arma si è fatto commuovere.
Il colonnello raggiunge in borghese l’albergo Sonja, dove alloggerà e apprendiamo che ha il vezzo di classificare ogni persona adattando istintivamente un profiling. Ad esempio, la piacente vedova sulla quarantina proprietaria del piccolo hotel può entrare nella categoria donne sole con fantasie mutanti, che non si liberano da un senso di disagio sottopelle e parlano più con se stesse che con gli altri, anche in compagnia.
Deformazione professionale, ma Stauder rischia di esagerare, riempe sagome virtuali delle persone cercando di definire un profilo. La moglie francese Sophie lo rimproverava sorridendo, gli contestava di guardare tutti come indagati.

Il cinquantacinquenne colonnello è riminese, famiglia di lontane origini austriache.
Diventato romano d’adozione, è vedovo. Sophie gli è stata uccisa al fianco, in Piazza Mazzini, da un commando dell’eversione residuale, quando colpire un ufficiale dell’antiterrorismo non avrebbe dato alle bande armate un’ora di vita in più.
La mamma di Paolino conferma che il ragazzo non aveva ordine in testa, ma parlava poco e non si agitava mai “come i matti, quelli veri”.
In casa era tranquillo e fuori sempre rispettoso con tutti. Lo chiamavano l’assessore, senza cattiveria, per ridere, perchè insisteva di volere risistemare Pietrasanta. Sognava di costruire tante casette uguali, di colore diverso. E le disegnava, con tratti infantili, ma in un modo sotto qualche aspetto molto preciso. Una specie di città di Lego su carta, vista dall’alto. Strade diritte, piazze rotonde con al centro fontanelle o aiuole. Persino stop e strisce bianche e nere, ponticelli sopra brevi canali. Una cittadina simile a quella di Topolino. E colori, tanti colori, a parte un caseggiato lugubremente nero, come un segnale d’allarme, presente in quattro disegni.

C’è di strano che la famiglia ha ricevuto la visita di due che si sono qualificati Carabinieri, uno in divisa l’altro in borghese. Dopo un’ora di ricerche, sono andati via senza trovare niente e non si sono rivelati affatto gentili, come si stanno dimostrando invece il colonnello Stauder e il brigadiere Corsi. Da un rapido controllo, non risulta che l’Arma abbia ritenuto necessario un sopralluogo in casa del povero Paolino, tanto meno una perquisizione...



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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