CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Ma io in guerra non ci volevo andare - Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954), di Antonio (Nino) Zorco
Liberi di scrivere di mercoledì 21 giugno 2023
Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che...

di Viviana Filippini

Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che ogni momento possa essere importante e anche utile per fare memoria e per conoscere quelle parti della Storia, in questo caso quella dei fiumani italiani costretti ad andarsene dalla loro terre e non ancora abbastanza note. Scrivo questo, perché vi voglio raccontare di “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco, un libro di memorie nel quale l’autore mette nero su bianco tutta la sofferenza provata nel campo di concentramento e appena tornato a casa. Andiamo con ordine, perché Antonio Zorco detto Nino, originario di Fiume, narra l’improvviso cambiamento della sua esistenza con l’arresto avvenuto nell’agosto del 1944 per mano dei tedeschi. Una volta catturato il giovane, che aveva evitato qualsiasi leva militare, venne spedito con altri compagni a Mühldorf, in Germania, dove rimase in un campo di concentramento per i lavori forzati (Todt) dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945. Pagine di dura vita, fatta di lavoro, di paure e necessità di sopravvivenza. Per sua fortuna Nino tornò a casa, anche in modo rocambolesco, malato e bisognoso di cure. Quello che il giovane reduce nato a Fiume da genitori istriani di Visignano d’Istria, trovò nel tentativo di arrivare a Fiume, fu qualcosa di ben diverso dalla pace. Al posto di scovare una situazione sociale dove poter ricominciare a vivere e ricostruire quello distrutto dalla guerra dentro e fuori di lui, Zorco dovette confrontarsi con altri militari, i soldati titini, che nel frattempo avevano occupato la città imponendo le loro regole. Zorco visse un senso di sradicamento dalle proprie radici, nel senso che Nino non solo venne prima deportato, ma tornato a casa trovò  una Fiume svuotata dei fiumani che aveva conosciuto (amici e parenti compresi) e piena di persone nuove arrivate dell’ex Jugoslavia, che imposero negli anni usi, costumi, tradizioni diverse da quelle che Nino aveva appreso. Una situazione spiazzante per l’autore che si rese conto di non avere più dei punti di riferimento italiani precisi, tanto da sentirsi un po’ alla Jacopo Ortis, ossia “uno straniero in casa propria”. Zorco spaesato e minato ancora da problemi di salute, chiese più volte alle autorità jugoslave di partire per l’Italia ma sempre gli venne negato il permesso. Nonostante questa impossibilità a raggiungere i suoi cari partiti (anche non volontariamente) per altri luoghi, Nino rimase a Fiume lavorando come tecnico di raffineria e trovando pace  grazie all’amore della moglie Daniza. “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco  è la storia di un giovane uomo portato via dalla sua terra natia e una volta tornato a casa sconvolto da quanto essa fosse cambiata. Il libro di Zorco è la storia di un fiumano che provò sulla propria pelle e nell’animo il vuoto lasciato dall’allontanamento dei propri cari e dalla trasformazione della propria terra occupata da altri. La testimonianza del fiumano Nino è una voce singola e, allo stesso tempo, la voce di un popolo, che con il proprio vissuto incarna quella perdita di capisaldi e quel senso di vuoto/mancanza dovuti all’allentamento forzato o, come nel caso di Nino Zorco, al doversi adattare, perché impossibilitati a partire, ad un mondo nuovo completamente diverso dalla terra istriana di un tempo. Il libro presenta un’introduzione di Diego Zandel, scrittore  nipote di Nino e la postfazione di Roberto Spazzali.

Antonio Zorco, detto Nino, classe 1925 era nativo di Fiume. I genitori erano istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Mühldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.



leggi l'articolo integrale su Liberi di scrivere
Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Liberi di scrivere - mercoledì 21 giugno 2023
Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che...

di Viviana Filippini

Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che ogni momento possa essere importante e anche utile per fare memoria e per conoscere quelle parti della Storia, in questo caso quella dei fiumani italiani costretti ad andarsene dalla loro terre e non ancora abbastanza note. Scrivo questo, perché vi voglio raccontare di “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco, un libro di memorie nel quale l’autore mette nero su bianco tutta la sofferenza provata nel campo di concentramento e appena tornato a casa. Andiamo con ordine, perché Antonio Zorco detto Nino, originario di Fiume, narra l’improvviso cambiamento della sua esistenza con l’arresto avvenuto nell’agosto del 1944 per mano dei tedeschi. Una volta catturato il giovane, che aveva evitato qualsiasi leva militare, venne spedito con altri compagni a Mühldorf, in Germania, dove rimase in un campo di concentramento per i lavori forzati (Todt) dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945. Pagine di dura vita, fatta di lavoro, di paure e necessità di sopravvivenza. Per sua fortuna Nino tornò a casa, anche in modo rocambolesco, malato e bisognoso di cure. Quello che il giovane reduce nato a Fiume da genitori istriani di Visignano d’Istria, trovò nel tentativo di arrivare a Fiume, fu qualcosa di ben diverso dalla pace. Al posto di scovare una situazione sociale dove poter ricominciare a vivere e ricostruire quello distrutto dalla guerra dentro e fuori di lui, Zorco dovette confrontarsi con altri militari, i soldati titini, che nel frattempo avevano occupato la città imponendo le loro regole. Zorco visse un senso di sradicamento dalle proprie radici, nel senso che Nino non solo venne prima deportato, ma tornato a casa trovò  una Fiume svuotata dei fiumani che aveva conosciuto (amici e parenti compresi) e piena di persone nuove arrivate dell’ex Jugoslavia, che imposero negli anni usi, costumi, tradizioni diverse da quelle che Nino aveva appreso. Una situazione spiazzante per l’autore che si rese conto di non avere più dei punti di riferimento italiani precisi, tanto da sentirsi un po’ alla Jacopo Ortis, ossia “uno straniero in casa propria”. Zorco spaesato e minato ancora da problemi di salute, chiese più volte alle autorità jugoslave di partire per l’Italia ma sempre gli venne negato il permesso. Nonostante questa impossibilità a raggiungere i suoi cari partiti (anche non volontariamente) per altri luoghi, Nino rimase a Fiume lavorando come tecnico di raffineria e trovando pace  grazie all’amore della moglie Daniza. “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco  è la storia di un giovane uomo portato via dalla sua terra natia e una volta tornato a casa sconvolto da quanto essa fosse cambiata. Il libro di Zorco è la storia di un fiumano che provò sulla propria pelle e nell’animo il vuoto lasciato dall’allontanamento dei propri cari e dalla trasformazione della propria terra occupata da altri. La testimonianza del fiumano Nino è una voce singola e, allo stesso tempo, la voce di un popolo, che con il proprio vissuto incarna quella perdita di capisaldi e quel senso di vuoto/mancanza dovuti all’allentamento forzato o, come nel caso di Nino Zorco, al doversi adattare, perché impossibilitati a partire, ad un mondo nuovo completamente diverso dalla terra istriana di un tempo. Il libro presenta un’introduzione di Diego Zandel, scrittore  nipote di Nino e la postfazione di Roberto Spazzali.

Antonio Zorco, detto Nino, classe 1925 era nativo di Fiume. I genitori erano istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Mühldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.



leggi l'articolo integrale su Liberi di scrivere
Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO