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“Io mi chiamo Miguel Enriquez” di Paolo Tagliaferri
SoloLibri.net di giovedě 21 novembre 2019
In caserma, il maresciallo Alatri č rimasto solo, con la caviglia gonfia, non si fronteggia un’alluvione.

di Felice Laudadio
Certo non lo mette in soggezione l’anziano che il capostazione ha voluto affidare ai Carabinieri. Vagava sul terzo binario della stazione di Santa Marinella, parla solo spagnolo e non ricorda niente di sé. Io mi chiamo Miguel Enriquez è un poliziesco dell’avvocato Paolo Tagliaferri, un autore di gialli che il fiuto di Diego Zandel ha cooptato tra i titoli della casa editrice Oltre, di Sestri Levante (2019, 158 pagine, 14 euro).
Litorale laziale settentrionale, una location periferica, inconsueta in un romanzo: al penalista di Civitavecchia piace giocare in casa nella scelta dell’habitat narrativo. Ma non è affatto da periferia il protagonista di questo volume tripartito, perché composto da un racconto lungo, che dà il titolo al libro e da due più brevi, “La linea” e “Al Amara”.
Tutti hanno come primattore Massimo Alatri, detto Max, il maresciallo con la foto del Che Guevara sul comodino, il Carabiniere che crede nei valori sociali e non fodera il cervello di nero. Ha quasi 50 anni e al momento è alle prese con una dolorosa distorsione alla caviglia, conseguenza di un salto coraggioso addosso ad un farabutto, da bloccare al porto. Tanti elogi e articoli, ma pure tanto unguento e uno scomodo tutore, per bloccare l’articolazione gonfia da fare pietà.
Del temperamento super attivo di Max nel passato si apprende nel complesso dei tre racconti di questo lavoro. Ama le donne. Con loro si comporta in modo leale, le rispetta. Ricorda con dolore la bella moglie fedifraga, lasciata dopo tre anni felici e soprattutto dopo averla scoperta nuda, a letto, con l’amante con cui trescava da un anno.
È stato nei Carabinieri dall’età della leva fino a un episodio tragico, l’accoltellamento mortale di un collega fraterno, con cui effettuava un servizio di vigilanza a Roma. La stampa e qualche gola profonda ne avevano dette di tutti i colori su Fabrizio. Le circostanze dell’omicidio non sembravano lineari e il giovane militare non ne usciva come una povera vittima e basta. A Massimo queste maldicenze erano risultate insopportabili, aveva lasciato l’Arma, ripreso e finito gli studi in legge, avviato una buona carriera da penalista. Era un difensore vincente, trasferiva nella professione i valori positivi della sua personale ma oggettiva “via dell’onore”.
Erano qualità che non potevano sfuggire ad un alto ufficiale dell’intelligence e il comandante generale della Benemerita in persona gli aveva comunicato il rientro in servizio, a furor di merito, tra i Carabinieri.
I due racconti brevi sono prequel nei quali si apprendono aspetti biografici e si osservano luci e ombre negli apparati dello Stato. Il maresciallo conduce la sua lotta personale e d’istituto contro la malavita, il malaffare, la criminalità.
Ce n’è anche per i mariti prepotenti. Fosse per Alatri, stalker e potenziali autori di femminicidi la pianterebbero di rendere la vita impossibile alle vittime designate: basterebbe far loro un “discorsetto”, in compagnia del collega Fantoni, un colosso tatuato con teschi, lame, volti ghignanti di Joker, con un passato nei Ros e da infiltrato nelle cosche, mestiere difficile. È un gigante di nessuna parola, ma con le mani estremamente eloquenti: i diretti interessati capiscono bene l’antifona.
Tagliaferri non sembra un avvocato quando scrive gialli e questo vuol essere un complimento, perché nei suoi polizieschi evita sintassi complesse e barocche, il racconto fila deretto al sodo, anche quando la costruzione narrativa si fa più complessa, per introdurre i rimandi storici alla caduta di Allende, alla dittatura di Pinochet, in Cile, nel 1973 e alle vicende dell’antenato Guglielmo Tagliaferri Alatri, nella guerra di secessione americana. I riferimenti sono sviluppati negli incisi in corsivo che intercalano il primo e il secondo racconto.
Si diceva che l’anziano accompagnato in caserma parla solo spagnolo. Max ha il tempo di accorgersi di un livido alla tempia, quando l’uomo dice di colpo di chiamarsi Miguel Enriquez, d’essere un medico, nato nel 1944 a Talcahuano.
Questo è impossibile, perché come la simpatica Carmen Verdugo, dell’Ambasciata del Cile a Roma, rivela allo sbalordito Alatri, quell’Enriquez era il capo di un partito di estrema sinistra, ucciso dalla polizia politica nell’ottobre 1974 a Santiago, nel rifugio dove si era nascosto dopo il golpe dell’anno prima.
Indubbiamente morto, su questo non ci sono dubbi, come non ce ne sono sul fatto che non siano degli angioletti i cinque cileni che raggiungono la caserma per prendere in consegna il connazionale. Due anziani messi bene e tre robusti giovanotti, dei buttafuori, per quanto ripuliti. Sostengono d’essere accompagnatori di un gruppo di ex funzionari dei Ministeri, in gita turistico-culturale in Europa. Dicono che il senor Diaz si era allontanato mentre visitavano Roma, ma la bella Carmen non ne sa niente. È sorpresa che una “missione” numerosa e con servizio di sicurezza al seguito possa visitare la capitale senza entrare in contatto con l’Ambasciata. Se suona strano a lei, figurarsi a Max. La reazione dei cileni al nome Miguel Enriquez lo spinge a stare decisamente sul chi vive.


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In caserma, il maresciallo Alatri č rimasto solo, con la caviglia gonfia, non si fronteggia un’alluvione.

di Felice Laudadio
Certo non lo mette in soggezione l’anziano che il capostazione ha voluto affidare ai Carabinieri. Vagava sul terzo binario della stazione di Santa Marinella, parla solo spagnolo e non ricorda niente di sé. Io mi chiamo Miguel Enriquez è un poliziesco dell’avvocato Paolo Tagliaferri, un autore di gialli che il fiuto di Diego Zandel ha cooptato tra i titoli della casa editrice Oltre, di Sestri Levante (2019, 158 pagine, 14 euro).
Litorale laziale settentrionale, una location periferica, inconsueta in un romanzo: al penalista di Civitavecchia piace giocare in casa nella scelta dell’habitat narrativo. Ma non è affatto da periferia il protagonista di questo volume tripartito, perché composto da un racconto lungo, che dà il titolo al libro e da due più brevi, “La linea” e “Al Amara”.
Tutti hanno come primattore Massimo Alatri, detto Max, il maresciallo con la foto del Che Guevara sul comodino, il Carabiniere che crede nei valori sociali e non fodera il cervello di nero. Ha quasi 50 anni e al momento è alle prese con una dolorosa distorsione alla caviglia, conseguenza di un salto coraggioso addosso ad un farabutto, da bloccare al porto. Tanti elogi e articoli, ma pure tanto unguento e uno scomodo tutore, per bloccare l’articolazione gonfia da fare pietà.
Del temperamento super attivo di Max nel passato si apprende nel complesso dei tre racconti di questo lavoro. Ama le donne. Con loro si comporta in modo leale, le rispetta. Ricorda con dolore la bella moglie fedifraga, lasciata dopo tre anni felici e soprattutto dopo averla scoperta nuda, a letto, con l’amante con cui trescava da un anno.
È stato nei Carabinieri dall’età della leva fino a un episodio tragico, l’accoltellamento mortale di un collega fraterno, con cui effettuava un servizio di vigilanza a Roma. La stampa e qualche gola profonda ne avevano dette di tutti i colori su Fabrizio. Le circostanze dell’omicidio non sembravano lineari e il giovane militare non ne usciva come una povera vittima e basta. A Massimo queste maldicenze erano risultate insopportabili, aveva lasciato l’Arma, ripreso e finito gli studi in legge, avviato una buona carriera da penalista. Era un difensore vincente, trasferiva nella professione i valori positivi della sua personale ma oggettiva “via dell’onore”.
Erano qualità che non potevano sfuggire ad un alto ufficiale dell’intelligence e il comandante generale della Benemerita in persona gli aveva comunicato il rientro in servizio, a furor di merito, tra i Carabinieri.
I due racconti brevi sono prequel nei quali si apprendono aspetti biografici e si osservano luci e ombre negli apparati dello Stato. Il maresciallo conduce la sua lotta personale e d’istituto contro la malavita, il malaffare, la criminalità.
Ce n’è anche per i mariti prepotenti. Fosse per Alatri, stalker e potenziali autori di femminicidi la pianterebbero di rendere la vita impossibile alle vittime designate: basterebbe far loro un “discorsetto”, in compagnia del collega Fantoni, un colosso tatuato con teschi, lame, volti ghignanti di Joker, con un passato nei Ros e da infiltrato nelle cosche, mestiere difficile. È un gigante di nessuna parola, ma con le mani estremamente eloquenti: i diretti interessati capiscono bene l’antifona.
Tagliaferri non sembra un avvocato quando scrive gialli e questo vuol essere un complimento, perché nei suoi polizieschi evita sintassi complesse e barocche, il racconto fila deretto al sodo, anche quando la costruzione narrativa si fa più complessa, per introdurre i rimandi storici alla caduta di Allende, alla dittatura di Pinochet, in Cile, nel 1973 e alle vicende dell’antenato Guglielmo Tagliaferri Alatri, nella guerra di secessione americana. I riferimenti sono sviluppati negli incisi in corsivo che intercalano il primo e il secondo racconto.
Si diceva che l’anziano accompagnato in caserma parla solo spagnolo. Max ha il tempo di accorgersi di un livido alla tempia, quando l’uomo dice di colpo di chiamarsi Miguel Enriquez, d’essere un medico, nato nel 1944 a Talcahuano.
Questo è impossibile, perché come la simpatica Carmen Verdugo, dell’Ambasciata del Cile a Roma, rivela allo sbalordito Alatri, quell’Enriquez era il capo di un partito di estrema sinistra, ucciso dalla polizia politica nell’ottobre 1974 a Santiago, nel rifugio dove si era nascosto dopo il golpe dell’anno prima.
Indubbiamente morto, su questo non ci sono dubbi, come non ce ne sono sul fatto che non siano degli angioletti i cinque cileni che raggiungono la caserma per prendere in consegna il connazionale. Due anziani messi bene e tre robusti giovanotti, dei buttafuori, per quanto ripuliti. Sostengono d’essere accompagnatori di un gruppo di ex funzionari dei Ministeri, in gita turistico-culturale in Europa. Dicono che il senor Diaz si era allontanato mentre visitavano Roma, ma la bella Carmen non ne sa niente. È sorpresa che una “missione” numerosa e con servizio di sicurezza al seguito possa visitare la capitale senza entrare in contatto con l’Ambasciata. Se suona strano a lei, figurarsi a Max. La reazione dei cileni al nome Miguel Enriquez lo spinge a stare decisamente sul chi vive.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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